Uscito nel 1992, The development dictionary (“Dizionario dello sviluppo”, Edizioni Gruppo Abele) ha influenzato radicalmente il dibattito internazionale sull’idea
di sviluppo rompendo lo schema concettuale sulle “sue magnifiche sorti e progressive”. Curato da Wolfgang Sachs, riconosciuto esperto mondiale di sostenibilità ambientale, il dizionario conteneva i pioneristici contributi di svariati studiosi (tra cui Serge Latouche, il noto teorico della decrescita felice), che evidenziavano le contraddizioni dei concetti-chiave legati allo sviluppo. Temi ancora oggi di straordinaria attualità, come racconta Sachs in questa intervista a Nuova Ecologia.
Vuole raccontarci come nacque l’idea di quell’opera?
Era il lontano ottobre del 1988. In una casa presso la Pennsylvania state university, con un gruppo di amici di Ivan Illich eravamo seduti insieme a lui intorno a un tavolo su cui venivano serviti pasta e vino rosso. Con parecchia ingenuità e un pizzico di
saccenteria decretammo la fine dell’era dello “sviluppo”, la cui ideologia nel dopoguerra aveva dominato i rapporti internazionali fra il Primo mondo (quello ricco) e il Terzo mondo (quello povero). Per decenni “sviluppo” era stato il mantra con cui ai Paesi poveri si apriva la prospettiva di diventare a loro volta ricchi. Parafrasando il “Padre nostro”, il messaggio dello “sviluppo” doveva diffondersi come in Occidente
così in Terra. Ma per noi rappresentava un immenso inganno. E decidemmo così di pubblicare le nostre critiche in forma di dizionario. A mio avviso, la storia ci ha poi dato ragione: la crescente disuguaglianza sociale e la distruzione dell’ambiente parlano chiaro. Sbagliammo però sui tempi e sulle modalità del crollo dell’idea di “sviluppo”. A cavallo degli anni 1989-1990, con la caduta del Muro di Berlino e la fine della guerra fredda cominciava una nuova epoca, allora sconosciuta: l’era della
globalizzazione.
Per anni al Wuppertal institut lei si è occupato del rapporto tra sostenibilità e globalizzazione. Quali sono gli aspetti che rendono la globalizzazione insostenibile?
Con la globalizzazione lo sviluppo economico supera la dimensione e il concetto stesso di Stato nazionale. Col risultato che i confini tra Stati diventano porosi, l’economia e la cultura sono sempre più in balia dei player globali, e i mercati transnazionali raggiungono i più remoti angoli della Terra. Se in passato lo “sviluppo” era stato affidato agli Stati nazionali, al tempo della globalizzazione è deterritorializzato. A imporsi sono le multinazionali, mentre gli stili di vita sul pianeta si omogeneizzano: i Suv rimpiazzano le motociclette, i telefoni cellulari sostituiscono le assemblee di villaggio, il refrigerio degli impianti di aria condizionata prende il posto della siesta pomeridiana. Ad usufruirne maggiormente è la classe media mondiale, i cui membri fanno shopping in centri commerciali sempre più indistinguibili gli uni dagli altri, comprano prodotti hi tech, guardano film e serie tv simili in tutto il mondo, si trasformano di tanto in tanto in turisti e dispongono dello strumento essenziale per l’omologazione mondiale: il denaro. Non a caso nel 2015 più della metà della classe media globale viveva nel Sud. Un dato che ben rappresenta il successo del pensiero sviluppista. Questo successo ha però comportato un fallimento ancora maggiore in termini ambientali: per questo non calano le emissioni di CO2 nonostante le innumerevoli conferenze dell’Onu sul clima, e per questo stiamo attraversando la sesta epoca, nella storia della Terra, di estinzione di massa di piante e animali. Di anno in anno, l’impronta ecologica globale sulla biosfera aumenta: l’umanità consuma ormai una quantità di risorse che supera di un fattore 1,7 la biocapacità della Terra di rigenerarle. Uscire dalla povertà seguendo i modelli di uno sviluppo equiparato tout-court alla crescita economica porta direttamente al disastro ambientale.
C’è un’exit strategy dalla globalizzazione insostenibile?
Bisogna dire addio alla modernità espansiva e imboccare la strada verso una modernità riduttiva. Sono tre le strategie fondamentali per ridurre la nostra impronta ecologica. Innanzitutto, va data priorità alla leggerezza, ossia alla dematerializzazione: dall’arredamento alle macchine, tutti i prodotti devono essere a basso impiego di risorse e anche durevoli. La seconda strategia è quella della biocompatibilità: la
tecnologia deve ispirarsi agli elementi naturali, dal vento al sole, all’acqua,
fino alle altre forme di vita organica. I pannelli fotovoltaici, le reti elettriche
intelligenti e l’agroecologia sono alcuni esempi in cui l’alta tecnologia imita i flussi naturali. Infine, la terza strategia è la moderazione. Bisogna puntare sulla lentezza, sull’economia regionale, sul benessere frugale. Quella che in italiano chiamo “economia della frugalità”, che suona meglio di economia della sufficienza, e che porta a un duplice vantaggio: una ridotta prestazione economica permette non solo di risparmiare risorse, ma anche di vivere un’esistenza più piena.
Michael Braungart, che con William McDonough ha teorizzato il modello “Cradle2Cradle” (dalla culla alla culla), rimprovera ai tedeschi una sorta di approccio pauperista, colpevolista, all’ecologia. Condivide questo rilievo?
Turbine eoliche, pannelli solari sui tetti, celle fotovoltaiche sulle facciate degli edifici, fibre naturali nei tessuti: negli ultimi venti anni si sono fatti grandi progressi verso un sistema a misura di energia solare. Comincia a delinearsi l’orizzonte utopico della meta finale: ottenere l’energia e i materiali che servono utilizzando il cosiddetto
“reddito solare”. Ne parlano Braungart e McDonough, che hanno contribuito
enormemente alla diffusione della biocompatibilità. L’energia e le materie ricavate su base solare sono rinnovabili: non sono sottratte a un giacimento, ma possono rigenerarsi in un ristretto lasso di tempo. In linea di massima non originano emissioni, né rifiuti: dopo il loro uso sia come combustibili, sia come materie prime, i residui sono riassorbiti dalla biosfera. Per questo energia solare e materiali biogeni sono
la base di un’economia ecologica. La biocompatibilità però non si concilia con un consumo eccessivo di risorse, né le energie e i materiali rinnovabili sono disponibili illimitatamente. È difficile ampliare la superficie del suolo dedicato alle bioenergie e ai biomateriali senza compromettere la produzione alimentare e la tutela della natura. Ed è impossibile sfamare il mondo con l’agroecologia senza mettere un freno al nostro consumo di carne. Altrettanto visibili sono i limiti dell’energia solare: basti pensare al “disturbo” arrecato al paesaggio dalle turbine eoliche e al fabbisogno dei metalli preziosi. In ogni caso, la conclusione è la stessa: dematerializzazione e biocompatibilità falliscono il loro obiettivo se non sono accompagnate dalla moderazione. Diventa quindi ineludibile domandarsi “quanto è abbastanza?”
Ai temi ecologici ha sempre affiancato l’attenzione al mondo delle religioni. In un recente saggio scrive che in difesa del clima si sono schierati i rappresentanti di tutte le religioni: cattolici, protestanti, buddhisti, musulmani, indù e baha’il. Che peso ha avuto, e ha ancora, la loro presa di posizione?
Le religioni hanno mobilitato la loro forza retorica sottolineando la vulnerabilità
dei poveri e la necessità di ristabilire la climate justice, la “giustizia nella serra”,
un appello ricorrente, in particolare, della chiesa protestante. L’ingiustizia dei
cambiamenti climatici è inaudita: gli Stati colpevoli del Nord hanno consumato
le ricchezze fossili della Terra, ma le conseguenze del surriscaldamento globale colpiscono molto più il Sud. L’effetto serra sta già portando a una consistente violazione dei diritti umani: non si può più fare affidamento su pioggia, livello delle acque sotterranee, temperatura, vento e stagioni, tutti fattori che hanno reso ospitale la Terra per l’uomo e gli altri esseri viventi. L’aumento del livello del mare inonderà
intere fasce costiere, ad esempio in Nigeria, Egitto, Bangladesh, Vietnam e nel Pacifico meridionale. I cambiamenti che riguardano precipitazioni, umidità dell’aria e temperatura avranno conseguenze su vegetazione, biodiversità, fertilità del terreno e corsi d’acqua. In breve, i cambiamenti climatici rappresentano un attacco ai diritti di
vasti strati di popolazione: dal diritto alla casa, alla salute, all’alimentazione. In secondo luogo, gli Stati industrializzati violano il principio polluter pays, “chi inquina paghi”. Sebbene gli Stati più poveri spingano in questa direzione e la frequenza di uragani e siccità aumenti, gli Stati industrializzati respingono ogni forma di responsabilità. Lo stesso vale per i profughi climatici: benché in milioni debbano già fuggire dalle loro terre, il diritto internazionale non gli riconosce lo status di rifugiati. Nessuno Stato è obbligato ad accoglierli, neppure nel caso di chi fugga da uno Stato insulare che sta “affondando”.
Pensa che l’enciclica “Laudato si’” rappresenti una pietra tombale sull’idea sviluppista?
Con l’enciclica al Papa è riuscito un gran colpo, in particolare con il mondo degli ambientalisti. Non parla di sviluppo, di progresso, di luminose e ottimistiche aspettative verso il futuro: solo una sobria valutazione del presente. L’enciclica deplora sia le ferite inferte dall’uomo alla natura, sia la degradazione di intere masse di esseri umani. L’idea stessa di sviluppo è stata capovolta: sono i ricchi del Nord e del Sud che devono cambiare, non i poveri. Mentre tutto il mondo punta a combattere la povertà, il Papa critica la ricchezza. Perché i ricchi usano più risorse naturali, che
non sono più disponibili per i poveri. Un maggiore consumo di carne, ad esempio,
riduce la superficie dei campi coltivati, la motorizzazione su larga scala sottrae
spazio a pedoni e ciclisti e necessita dell’estrazione di minerali e di petrolio.
L’uso di massa di computer e smartphone ha bisogno di elettricità, di minerali
rari associati a pessime condizioni di lavoro in miniera. In altre parole, le classi
medio-alte dei Paesi industrializzati ed emergenti conducono, chi più chi meno,
uno stile di vita imperialista. La necessità di improntare l’economia al concetto di
sufficienza si potrebbe forse sintetizzare così: fare di tutto per non vivere a danno
di altri esseri umani e di altri esseri viventi.