Ovunque in Italia si parli di sanità pubblica, immediatamente si fa riferimento al servizio ospedaliero, nel bene e nel male. L’esperienza delle microaree a Trieste disegna un percorso controcorrente, nel solco della cultura basagliana. Ancora una volta rovesciando il senso comune per avvicinarsi di più ai bisogni della gente. Si va là dove vive la popolazione più fragile, più povera, quella che nella malattia si rivolge, in emergenza, alle strutture ospedaliere. Nelle microaree triestine si investe sul “medico di territorio” per aggredire le disuguaglianze sanitarie. I risultati sono stati documentati dagli epidemiologi dell’università di Torino e Udine: migliora lo stato di salute della popolazione coinvolta e diminuiscono le spese sanitarie.
È la conferma che la salute non è l’effetto della medicalizzazione, ma è il risultato di un sistema di relazioni che rompono la solitudine e l’abbandono, e ricostruiscono comunità. Servono spazi da frequentare insieme, serve la cura delle relazioni tra persone, serve ricostruire pari opportunità per tutti.Il progetto “Microaree” ha avviato tutto questo in una visione globale d’innovazione sociale che, affrontando le disuguaglianze sanitarie, per forza di cose si fa carico delle disuguaglianze economiche e ambientali. Partendo dal riconoscimento che ogni malato è innanzitutto una persona che fa parte di una comunità.
È una ricetta replicabile? Non con il “taglia e incolla” ma replicando principi e visione tenendo conto delle diversità territoriali. Serve quindi la volontà, forse culturale prima ancora che politica, per capire che il senso di un servizio pubblico che vuole ridurre le disuguaglianze si gioca tutto qui: nella capacità di tenere insieme la multidimensionalità delle disuguaglianze con cui una persona fragile si deve misurare.