Trasporti senza olio di palma: l’Italia non può più rimandare

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Una proposta concreta per rendere davvero più green e rinnovabili i trasporti. Invece dell’attuale meccanismo di mercato che, per legge, sovvenziona i petrolieri che aggiungono olio di palma al gasolio da autotrazione, la proposta è di finanziare solo le “vere” rinnovabili, che non distruggono foreste e biodiversità in Indonesia, e trasporti davvero sostenibili, come per esempio anche tram e treni alimentati da elettricità rinnovabile prodotti in Italia.

Questa è una delle proposte, quella che meglio riassume le tante che verranno avanzate nel corso del webinar del 12 giugno che verrà trasmesso in diretta sulla pagina Facebook e sul canale YouTube di Legambiente e sulla pagina Facebook e sul sito di Nuova Ecologia dalle 10.30. Ne parleranno Rossella Muroni dal parlamento, Gianni Girotto e Diego De Lorenzis dal senato, Tullio Berlenghi dal ministero dell’Ambiente. Interverranno le associazioni d’impresa come il Coordinamento Free con il presidente GB Zorzoli, Assodistil (le distillerie di etanolo) con il direttore Sandro Cobror, Motus-e (mobilità elettrica) con il segretario Dino Marcozzi, Veronica Aneris per Transport&Environment in Italia ed Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente.

Vere rinnovabili nei trasporti, il 12 giugno il webinar sul recepimento della direttiva Ue REDII

La legge che consente oggi di finanziare le importazioni di olio di palma per usarlo nei motori diesel prende le mosse dalla prima direttiva europea sulle energie rinnovabili del 2009. Questa direttiva promuoveva qualsiasi biocarburante come rinnovabile: anche se in competizione con le produzioni alimentari, anche se per produrne sempre di più se ne estendeva la coltivazione “invadendo” le grandi foreste tropicali in Indonesia, Malesia, in Amazzonia, in Africa.

L’olio di palma, come l’olio d’oliva nell’area del Mediterraneo, nutre centinaia di milioni di abitanti dell’Asia, India e Cina inclusa, e serve per produrre saponi e detergenti, creme e unguenti naturali, prima ancora che essere utilizzato come combustibile. Uso che invece viene fatto soprattutto in Europa e in Italia.

In Italia nel 2018 oltre un milione di tonnellate di olio di palma è stato bruciato nei motori diesel, il 75% dell’import italiano (metà per autotrazione, l’altra metà per generazione elettrica). Nel 2019 la sola Eni ne ha trasformate 246mila tonnellate in EniDiesel+, per la cui pubblicità ingannevole ha pagato una multa milionaria. Un litro di olio di palma bruciato comporta il triplo delle emissioni di CO2 di un litro di gasolio fossile. Il come mai lo spiega, in un proprio “regolamento delegato” (quindi una legge) la stessa Commissione europea: il 45% delle nuove coltivazioni di olio di palma che alimentano i nostri diesel viene prodotto in piantagioni che hanno sostituito, nel corso degli ultimi dieci anni, foreste ad alto grado di biodiversità, torbiere e zone umide tropicali. Vastissime aree sono state bruciate ed essiccate, sono stati uccisi oranghi, tigri e rinoceronti, scacciati indigeni e contadini, aperti conflitti sociali, distrutti 25,6 milioni di ettari di foreste in Indonesia e 6,6 in Malesia. E all’automobilista italiano si raccontava che il pieno era “green” e faceva bene “al motore e all’ambiente”. La petizione sul sito www.change.org/unpienodipalle ha già raccolto quasi 60 mila firme per mettere fine a questa tragedia. Come? Oggi il parlamento italiano ha il compito di riscrivere le regole per recepire la nuova direttiva rinnovabili (RED II) che dice esplicitamente che devono finire gli incentivi legali ai biocarburanti alimentari, ma lascia agli Stati membri il compito di definire quando. La Francia ha già tolto gli incentivi da sei mesi. Legambiente propone che almeno entro sei mesi il nostro Paese si rimetta in careggiata. Eni, all’assemblea societaria, ha comunicato ufficialmente l’uscita dall’olio di palma entro il 2023. Una prima grande vittoria.

Il tema, adesso, è capire su quali rinnovabili puntare al posto dell’olio di palma. Il biometano dai rifiuti, per esempio, è una tecnologia in cui l’Italia è seconda solo alla Cina e alla Germania. Ma anche il bioetanolo da scarti cellulosici, anche di origine agroalimentare (le distillerie hanno sempre fatto questo per produrre ottima grappa e preparati medici), può rappresentare un’alternativa sostenibile. Gli operatori del settore chiedono alla politica di garantire piani industriali e investimenti, e il perché è facilmente intuibile. Non si costruisce una distilleria investendo centinaia di milioni solo per alimentare automobili per dieci o quindici anni, perché poi la maggior parte sarà elettrica. Si passa alla chimica verde, e dunque a impianti chimici moderni e flessibili, per trarre dagli scarti agroindustriali materie prime e manufatti oggi prodotti dal petrolio. È questa la nuova economia circolare.

Risvolti positivi si possono avere per i trasporti per far sì che circolino sempre più veicoli elettrici di varia natura: auto, furgoni, camion, gru e navi nei porti, treni merci e pendolari, tram e filobus. In Olanda i distributori di petrolio acquistano quote di rinnovabili (i Cic, certificati immissione al consumo) da chi gestisce punti di ricarica per veicoli elettrici, per pagarne l’installazione e ridurre il costo della ricarica. In California i petrolieri che non riescono a ridurre le emissioni del 10% possono acquistare crediti “rinnovabili” anche dai proprietari o dai produttori di veicoli elettrici in proporzione alle rinnovabili elettriche che dimostrano di aver effettivamente usato. Tutto ciò è possibile anche in Italia.

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