È stato l’intervento dei carabinieri forestali a fermare i lavori per una mini centrale idroelettrica sul Carne, in Liguria, a settembre dello scorso anno. La Provincia di Imperia aveva autorizzato l’impianto senza tenere conto della presenza di un ponte medievale e del gambero di fiume, specie protetta che vive nelle pozze di questo piccolo torrente delle Alpi Marittime. Non lontano, invece, le sponde del rio Gordale, gemello del Carne, sono state stravolte dalla costruzione di una centralina idroelettrica, mai entrata in funzione a causa di errori di progettazione.
Su tutto l’arco alpino, dalla Liguria al Friuli-Venezia Giulia, come sugli Appennini, sono ormai rari i corsi d’acqua ancora naturali. Per trovarli, bisogna salire sempre più ad alta quota, in luoghi impervi, vicino alle sorgenti, ai ghiacciai, ai nevai, in vallette come quelle dove scorrono il rio Carne e il Gordale. Ma sempre più i torrenti rischiano di essere alterati dalla costruzione di impianti per la produzione di una quantità modesta di energia, resa economicamente conveniente dagli incentivi statali alle rinnovabili. «Le fonti pulite vanno sostenute – afferma Vanda Bonardo, responsabile nazionale Alpi per Legambiente – ma devono anche essere rispettate le norme di tutela, in particolare la direttiva Acque. In ambienti montani integri, infatti, anche i mini impianti possono avere impatti pesanti».
L’idroelettrico dà il contributo più importante alla produzione di energia verde in Italia, fornendo più del 39% del totale da fonti di energia rinnovabile. Nel 2016, rispetto al 2015, c’è stata però una diminuzione quasi del 7%, dovuta a fattori meteorologici: un calo che sarà sicuramente confermato per il 2017, data la prolungata siccità dello scorso anno. Allo stesso tempo, è cresciuto il numero delle centrali: 227 unità in più, tutte di piccola dimensione. In Italia oggi sono in esercizio 3.920 impianti idroelettrici, 2.745 hanno potenza inferiore a un 1 MW e forniscono appena il 6% di energia da questa fonte (dunque un contributo infinitesimale al fabbisogno energetico nazionale), mentre nei 303 grandi impianti con oltre 10 MW installati si concentra l’82% della potenza idroelettrica totale. Questi i numeri dell’ultimo rapporto del Gestore servizi energetici (Gse), la spa incaricata dallo Stato di conseguire gli obiettivi di sostenibilità nell’efficienza energetica e nello sviluppo delle rinnovabili. Ed è anche su questi dati che si basa la nuova Strategia energetica nazionale (Sen), firmata il 10 novembre 2017 dai ministri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente, per dalle fonti fossili passa anche per l’efficientamento e il potenziamento dei grandi impianti idroelettrici esistenti, che potrebbero aumentare la produzione a costi relativamente contenuti. Legambiente, nel dossier “L’idroelettrico, impatti e nuove sfide al tempo dei cambiamenti climatici”, sottolinea però che i nodi da sciogliere sono legati al riaffidamento con gara delle concessioni per i grandi impianti, sia quelle rilasciate all’Enel, che terminano nel 2029, sia quelle in capo ad altri soggetti e ormai scadute, per cui la Commissione europea ha messo in mora l’Italia già dal 2013.
Ma, di fronte al surriscaldamento globale, i corsi d’acqua montani vanno anche visti nel contesto di una sempre minore disponibilità della risorsa idrica, su cui cresce la pressione dei prelievi per i nuovi piccoli impianti. Secondo il recente rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente, gli impatti del cambiamento climatico saranno particolarmente rilevanti sulle Alpi: qui infatti, negli ultimi 150 anni, si sono registrate temperature più alte di quasi due gradi centigradi, più del doppio della media globale del pianeta.
Sono molti i casi di centrali idroelettriche che non producono quanto previsto sulla carta. In Trentino, per esempio, due impianti sul torrente Rabbies, gestiti dal consorzio Stn della Val di Sole, hanno fornito nel 2017 appena il 30% dell’energia prevista e per il 2018 il bilancio previsionale è stato rivisto drasticamente al ribasso.
Negli ultimi dieci anni di fronte al proliferare di mini impianti dal grande impatto, è dal Bellunese, segnato profondamente dall’eredità del Vajont, che si sono levate le voci contrarie più insistenti. Il comitato “Acqua bene comune” ha fatto un ricorso alle istituzioni europee che ha portato all’apertura, da parte di Bruxelles, di due procedure di accertamento sul rispetto della direttiva Acque 60 del 2000. Per evitare di andare in infrazione, alla fine dello scorso anno il ministero dell’Ambiente ha emanato i decreti direttoriali 29 e 30, che stabiliscono come valutare l’impatto delle derivazioni e come calcolare il deflusso ecologico, che sostituirà il deflusso minimo vitale garantendo una migliore qualità fluviale. «Ci attendiamo – riprende Bonardo di Legambiente – che queste regole vengano applicate da subito, anche per i moltissimi progetti in itinere, a salvaguardia dei ultimi torrenti alpini ancora liberi».