Terremoto l’Aquila, l’intervista ad Alessandro Chiappanuvoli

Chiappanuvoli

Alessandro Chiappanuvoli è stata una delle voci dal terremoto abruzzese del 2009. Lo ha fatto con dei reportage per “Internazionale” e successivamente con un romanzo di fiction illuminata con forza dalla realtà. Il titolo è “Sopra e sotto la polvere. Tutte le tracce del terremoto” (Effequ, pp.336, 15 euro). Abbiamo provato a fare un bilancio del recente anniversario del sisma. E siamo partiti proprio dal suo libro che, in qualche modo, ne rappresenta un’accurata indagine dal vivo ma con la cassetta degli attrezzi della letteratura e dell’istruttoria giornalistica. «Sopra e sotto la polvere – racconta Alessandro Chiappanuvoli – è la conclusione di un percorso umano e professionale iniziato il 6 aprile 2009. I primi appunti cominciai a prenderli proprio l’estate di undici anni fa, mentre la stesura della parte narrativa ha occupato quattro anni, dal 2012 al 2016. Poi la collaborazione con Internazionale, da un lato, ha rallentato la pubblicazione, dall’altro, mi ha però spinto ad approfondire molti temi con un approccio argomentativo. In definitiva, l’ambizione del libro che unisce racconto a saggio era di raccontare “tutto il terremoto”, con la consapevolezza però che il racconto di per sé non è sufficiente. È necessario invece, per quanto possibile, comprendere anche le dinamiche sociali, politiche, psicologiche, economiche, urbanistiche, che appunto vi sottendono, e questo per eliminare l’alone di straordinarietà che siamo soliti dare al terremoto e riportarlo, all’opposto, nel campo dell’ordinario, del familiare».

Come ha equilibrato le parti del libro saggistiche o di reportage e quelle più intime e narrative?
L’equilibrio, devo dire, è venuto da sé. Ogni saggio riprende il tema, o uno dei temi, trattato nel racconto a cui si riferisce. I diciassette racconti e i diciassette saggi sono così indissolubilmente collegati, tanto che c’è chi suggerisce di leggerli in successione, saltando di volta in volta dalla narrativa alla saggistica. Il libro, poi, già nella sola stesura narrativa, come detto, aveva l’ambizione di raccontare tutti gli aspetti del terremoto; i temi, insomma, c’erano già, è bastato affrontarli nella vesta saggistica. Molti racconti, infatti, sono stati strutturati sullo specifico fenomeno che volevo descrivere e per lungo tempo sono andato alla ricerca delle storie che permettessero la loro comprensione. Il terremoto poi è un evento che di per sé tiene unite le sfere private e sociali, soprattutto nei primi anni; ciò che accade al singolo è causato dalle stesse dinamiche che investono la collettività, e la storia di uno può essere utile ad altri per affrontare i propri problemi. Il terremoto, in realtà, credo sia un grande strumento di integrazione, di rinsaldamento comunitario, peccato che ciò venga completamente ignorato dalla politica, la quale, a voler fare i maligni, pare operi invece proprio in senso opposto.

Come è L’Aquila oggi e come non potrà più essere?
Su L’Aquila preferisco sempre fare un discorso radicale, forse provocatorio. L’Aquila era una città senza idee prima del terremoto ed è una città senza idee a undici anni dal sisma. Non aveva un’idea di cosa voleva essere prima e non ce l’ha oggi. E la sua mentalità provinciale, un po’ bigotta se vogliamo, attaccata ai piccoli interessi, caratterizzata da un pesante familismo amorale, non è cambiata affatto, anzi, in un certo qual modo si è consolidata. Ma se vuole sopravvivere, questa tendenza non può e non deve durare ancora a lungo. Anche perché, di contro, sono cambiati gli aquilani, gli individui: è come se il terremoto li avesse, ci avesse risvegliati. (E non può che essere così quando ci si trova a affrontare la morte e la distruzione.) C’è oggi un fermento prorompente che prima non sospettavamo neanche potesse esplodere. All’Aquila, oggi, c’è una passione commovente, una forza di volontà sorprendente, e con queste, io credo, molto presto la politica e i vecchi interessi dovranno fare i conti.

I terremoti in Centro Italia hanno creato secondo lei, in base alla reazione, una sociologia della reazione e se sì quale?
I terremoti distruggono tutto ciò che trovano al loro passaggio, e sul poco che resta in piedi si attiva la reazione. Ovvio poi che la reazione di un capoluogo di regione come L’Aquila sia stata più forte, in termini sia di attivismo che di investimento politico da parte delle istituzioni, di quella di paesi o piccole frazioni, ma le dinamiche di fondo io credo che siano le stesse. Anche nelle piccole realtà dell’immenso cratere del 2016-2017, come anche in Emilia, c’è stato un risveglio, una reazione positiva portata avanti tra mille difficoltà da volontari, cittadinanza attiva, associazioni, comitati, singoli cittadini, amministrazioni virtuose. Ognuno secondo le peculiarità del proprio territorio, ognuno secondo le proprie forze. Potrei fare decine di esempi. Il punto nodale però è che ovunque, all’Aquila come in Centro Italia, in Emilia come sull’isola di Ischia, lo Stato non ha messo in atto politiche volte a sostegno della ricostruzione sociale dei territori se non in forma di investimenti a pioggia che si concretizzano, per esempio, in una casa delle associazioni, in un centro polifunzionale, in un auditorium, in un manufatto. Per quanto possa essere utile nell’immediato, non è sufficiente ha garantire la sopravvivenza di lungo periodo della comunità. Sono, più che altro, boccate d’ossigeno per amministratori e imprenditori, ostensioni a fini elettorali per politici nazionali. Non sono, in definitiva, progetti promossi in accordo con le vere risorse e le reali esigenze dei territori. E invece è qui che l’impegno dello Stato dovrebbe essere massimamente espresso, nel sostegno alla ripresa sociale, culturale, identitaria, e quindi all’economia reale. Il terremoto distrugge le case quanto le strutture sociali, pertanto pensare ancora che la ricostruzione sia soltanto il rispristino della precedente realtà materiale e infrastrutturale è retrogrado e assolutamente non sufficiente. Tanto più quando anche la ricostruzione materiale, e mi riferisco al Centro Italia, è ferma quasi al punto zero. Ecco, quindi, che le reazioni non solo sono diversificate da zona a zona, da paese a paese, ma da comunità in comunità: dove è sopravvissuto qualche brandello di comunità si hanno esempi positivi di reazione perché soltanto a essa è affidato il compito di tenere insieme il tessuto sociale e di immaginare la ripresa del territorio. In tal senso lo slogan “non vi lasceremo soli”, ripetuto come un tormentone dai politici nazionali, è doppiamente beffardo.

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