Taranto cerca strada

Quello di Salvatore Romeo – autore del libro L’acciaio in fumo, uscito per Donzelli la scorsa primavera – è un lavoro di ricerca rigoroso, ben documentato, che aiuta a far capire la complessità della vicenda del siderurgico tarantino nei suoi aspetti di politica industriale, occupazionale, sociale e ambientale. Romeo ne ricostruisce la storia a partire dalle scelte industriali fatte nel secondo dopoguerra, fino all’acquisizione da parte della multinazionale Arcelor Mittal, avvenuta a novembre 2018, quando sembrava potersi aprire una nuova fase per dare una risposta all’occupazione e al risanamento ambientale. A un anno di distanza, a novembre 2019, la compagnia franco-indiana ha rimesso in discussione il contratto. La Nuova Ecologia incontra Salvatore Romeo lo scorso metà ottobre, quando la trattativa fra il governo e la società è in corso e l’esito incerto. L’accordo siglato a marzo prevede che se la trattativa non dovesse andare a buon fine Mittal potrà ritirarsi pagando una penale. Sul tavolo c’è l’ingresso dello Stato nel capitale sociale dell’azienda.

Nel suo libro ha ricostruito la storia di come è nato lo stabilimento tarantino, voluto e gestito dalle allora Partecipazioni Statali. Che differenza vede nel ruolo che può svolgere oggi lo Stato nell’indirizzare la politica industriale?

Salvatore Romeo Ilva Taranto
Salvatore Romeo

All’epoca Italsider e Finsider erano fra le più grandi società industriali d’Europa: c’era un management pubblico competente nella gestione di grandi impianti. Da trent’anni a questa parte lo Stato ha dismesso questa esperienza e ora non si presenta più come manager, ma come investitore “paziente” per favorire soprattutto investimenti in innovazione tecnologica. Per il futuro si ipotizza che la gestione industriale resti in capo ad Arcelor Mittal, mentre per conto dello Stato dovrebbe entrare in campo Invitalia versando una quota del capitale. Ma ancora non è chiaro quale indirizzo strategico emergerà da questo accordo. Queste incertezze si inseriscono in una situazione di mercato che già era problematica prima del Covid-19, e che ora è tragica. C’è una sovracapacità produttiva a livello globale, mentre il mercato europeo è in sofferenza, con numerosi stabilimenti a rischio. La stessa Arcelor Mittal sta rivedendo la sua posizione globale. Per cui è molto difficile fare previsioni.

Le prospettive le ha indicate l’Europa: riconvertire i processi industriali inquinanti per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, anche grazie all’uso delle risorse del Recovery fund. Per Taranto è previsto l’uso del Fondo per la giusta transizione. Si fa strada l’idea di produrre l’acciaio con l’idrogeno.

Le tecnologie di produzione dell’acciaio con idrogeno sono ancora di frontiera. Ci sono sperimentazioni in Europa, fra l’altro dello stesso Mittal, che però non hanno ancora una scala industriale. Un impianto in Svezia – che diventerà pienamente operativo solo nel 2035 – produrrà un milione di tonnellate, quando Taranto ha una capacità produttiva di 10 milioni. Certamente è una delle tecnologie del futuro, ma ci sono ancora molti passi da fare. La Commissione europea sta lanciando una serie di stimoli per costruire nuove politiche energetiche, ma sono processi che richiedono fasi intermedie. Esistono invece tecnologie che potrebbero essere adottate subito e che consentirebbero un beneficio ambientale significativo. Potrebbe essere recuperato il “piano Bondi” (presentato dal commissario straordinario Ilva nominato dal governo Letta nel 2013 e rimosso dopo un anno da Renzi, ndr) in cui si prevedeva un assetto ibrido: due altoforni in marcia e uno o due forni elettrici che realizzano una parte della produzione d’acciaio diminuendo l’uso del carbone. Deve essere chiaro però che ogni innovazione tecnologica incide sull’occupazione: una “patata bollente” che nessuno vorrebbe avere in mano. Si era partiti da una prospettiva di circa cinquemila esuberi, ma la trattativa con i sindacati non è mai iniziata.

Non pensa che il vincolo di mantenere tutti i dipendenti non abbia aiutato a trovare soluzioni con un minor impatto su salute e ambiente?

Però è un vincolo molto importante perché non stiamo parlando di qualche decina di lavoratori. Considerando che il 90% dei lavoratori risiede nella provincia di Taranto, l’impatto sull’economia del territorio sarebbe significativo.

Ma per mantenere l’occupazione degli oltre ottomila lavoratori, la produzione dovrebbe attestarsi almeno su 8 milioni di tonnellate l’anno, con un impatto sanitario e ambientale insostenibile.

Questo è un nodo difficile da sciogliere. Si può pensare di far fronte a migliaia di esuberi solo con gli ammortizzatori sociali? Con il bilancio pubblico dell’Italia non è facile trovare risorse per un periodo lungo. Oggi chi deve prendere una decisione si trova in una situazione drammatica: da una parte favorire l’innovazione ambientale e produttiva, dall’altra non perdere posti di lavoro.

È un dilemma che ci trasciniamo dal 2012, quando la magistratura operò il sequestro dell’area a caldo. Da allora si parla di rendere compatibili lavoro e salute. Non è il caso di pensare subito a forme di sperimentazione tecnologiche meno inquinanti, in modo da trovarci pronti quando diremo addio ai fossili, compreso il gas?

La sperimentazione sarebbe auspicabile, ma ancora oggi la tecnica prevalente è quella del ciclo integrale, della produzione di acciaio da carbone e da minerale attraverso l’altoforno. È la tecnica prevalente perché consente maggiori economie di scala e migliore qualità dei prodotti. E poi c’è un problema: gli impianti a idrogeno implicano un aumento dei costi del 20/30%; anche con il gas crescerebbero le spese. Il rischio è che il siderurgico di Taranto, che sicuramente sta diventando un cantiere per la sperimentazione tecnologica, alla prova con il mercato resti tagliato fuori. Servirebbe una capacità manageriale di altissimo livello, una visione di ampio respiro e un impegno strategico dello Stato.

L’ex Ilva si conferma un grande problema nazionale ma anche una grande sfida industriale.

Assolutamente, ammesso che sia ancora sensato parlare di una politica industriale nazionale. Non solo la siderurgia, ma tanti altri settori – fra cui l’automotive o la cantieristica – hanno bisogno di una politica europea. In parte il Recovery fund e il Just transition fund introducono elementi di politica industriale a livello europeo, ma la gestione è ancora demandata a livello nazionale. C’è l’idea, in particolare in Francia, di favorire la nascita di grandi aziende europee per competere con quelle cinesi, indiane e statunitensi. Ma anche questa strada ha potenzialità e rischi, su tutti una forte concentrazione del potere politico ed economico.

Qual è il suo punto di vista sul dibattito locale?

A me sembra che ci sia tanta confusione. Vedo una tendenza pericolosa, che si sta affermando anche nelle istituzioni locali: pensare di affrontare problemi così complicati con soluzioni semplici, se non semplicistiche. Fra non molto potremmo avere migliaia di esuberi: immaginare di assorbire queste persone con attività tipo servizi, ristorazione, alberghi, turismo è irrealistico per una città di 200mila abitanti e una provincia di 500mila, tanto più nella fase di crisi che stiamo attraversando. Bisogna stare attenti a non coltivare pericolose illusioni.

Legambiente ha sempre creduto che si possa costruire un futuro di salute e lavoro per Taranto. Chi può aiutare i cittadini a confrontarsi e diventare protagonisti delle scelte?

Ci troviamo in una fase storica di quasi completa disintermediazione. I soggetti collettivi quali associazioni, sindacati, partiti non sono in grado di promuovere il confronto e offrire alla cittadinanza un orientamento. Tanto più in una città in cui da trent’anni è radicata una tendenza populista molto forte. La società è frammentata e fatica a trovare momenti di dialogo. Sarebbe auspicabile che le forze sociali si ponessero il problema e lo affrontassero costruendo alleanze.

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