Stranieri in patria

Stranieri in patria

Non sono migranti appena sbarcati. Nemmeno hanno scelto di migrare. Lo hanno deciso un giorno, per loro, i genitori. Erano bambini, oggi sono maggiorenni. E si sentono italiani, perché in Italia sono cresciuti. Ma non lo sono. Hanno frequentato la scuola italiana, assorbito lingua, cultura, usi e costumi di questo Paese. Non basta, però, per ottenere la cittadinanza con la legge attuale. Se hanno raggiunto la maggiore età senza che un genitore gliela potesse passare, ora, oltre agli anni di residenza, devono dimostrare di aver percepito un reddito non inferiore a una determinata soglia per tre anni di fila. Partita non facile con i tempi che corrono. Ma Ania, Mohamed e Rifat, che hanno raccontato la loro storia alla Nuova Ecologia, non hanno intenzione di arrendersi. Pensano di potercela fare. Prima o poi. Con un po’ di amarezza. Perché intanto passano i treni, di quelli che una volta persi non li prendi più.

Ania ha 27 anni. È arrivata a Frosinone dalla Polonia quando ne aveva 11. Oggi vive a Roma, dove si è laureata in Scienze della comunicazione, ed è stagista in un centro di ricerca che si occupa d’immigrazione. «Sono cittadina comunitaria – racconta – quindi in teoria, rispetto a una persona extracomunitaria, per me ottenere la cittadinanza italiana è più facile: bastano tre anni di residenza invece di dieci. Ma c’è comunque il problema del reddito continuativo: se per un anno rimani disoccupato, devi ripartire da zero. Il requisito economico lo ritengo anche giusto, però per chi arriva da adulto, non per chi è cresciuto qui. Si dovrebbero fare due discorsi separati. È doloroso scoprire in età adulta di essere straniero». Con i ragazzi del movimento Italiani senza cittadinanza, Ania ha manifestato il 13 ottobre scorso per sollecitare la revisione della legge.

«Non ci sentiamo immigrati – continua – Siamo cresciuti qui, la cultura italiana ci ha formato. Il passaggio dalla Polonia non è stato per niente facile, uno sradicamento in un’età particolare. Ti senti fuori luogo, non capisci la lingua, devi ricominciare tutto da zero. Ma ti devi integrare, sennò ti ritrovi da solo. Non rinnego le mie origini ma ho vissuto più a lungo in Italia e me ne sento parte. Ultimamente, però, il clima di discriminazione è aumentato, senza differenza tra chi arriva ora e chi è qui da tempo: ti fanno sentire fuori luogo. Se non lavori, ti mantengono; se lavori, gli rubi il lavoro. Non è così, io ho fatto tanti sacrifici. Chiedo solo di essere riconosciuta come parte del Paese, e credo davvero di potergli dare il mio contributo: per questo ho studiato. Sono pure d’accordo sul fatto che la cittadinanza vada meritata, ma noi che cosa abbiamo fatto per non meritarcela? Senza i tre anni di reddito, con i tanti lavori precari che ci sono, non sarò mai cittadina. Forse sarò costretta ad andare a cercare lavoro altrove: si parla tanto di “invasione” ma ben poco di fuga dei cervelli».

Al telefono l’italiano di Mohamed è perfetto, con tanto di inflessione veneta. Ha 26 anni, è arrivato a Treviso dal Marocco quando ne aveva tre. Ora si è appena trasferito a Milano per studiare Giurisprudenza. Anche lui è impegnato con Italiani senza cittadinanza. «Parlo il veneto meglio dell’arabo» dice ridendo. Poi si fa serio. «Per ora sono al primo anno, ma se volessi fare il concorso per entrare in magistratura non potrei: bisogna essere italiani. Una mia amica laureata in Psicologia non può iscriversi all’ordine professionale invece. Ho iniziato ad avvertire il problema alle superiori, quando non sono potuto andare in gita scolastica. Sono stato l’unico a rimanere a casa. Una cosa che subisci parecchio. Oggi sono l’unico extracomunitario in famiglia. Ero da poco maggiorenne quando mio padre ha ottenuto la cittadinanza. L’ha passata solo a mio fratello più piccolo, che adesso vive a Londra, mentre io per andare a trovarlo devo chiedere un visto». Quando Mohamed ha fatto l’Erasmus in Svezia è dovuto rientrare dopo tre mesi, rinunciando ai sei previsti per non perdere il permesso di soggiorno. «Posso rimanere fuori dall’Italia al massimo per 90 giorni: è un meccanismo per cui il permesso di soggiorno ti lega all’Italia, che però ti riconosce come straniero. Ho investito tanto qui e mi sento italiano: è la mia identità. All’estero sono “Mohamed l’italiano” e sono felice di esserlo, di gesticolare molto e di essere affezionato al caffè e alla pizza. Ma l’Italia sta chiudendo porte interne, precludendo a ragazzi cui ha garantito la scuola la possibilità di diventare professionisti». A lui, che fa anche l’allenatore di calcio di una squadra di bambini, la mancata cittadinanza ha impedito di accedere a convocazioni nazionali in squadre di calcio e di rugby. «Per entrambi gli sport ho ricevuto convocazioni nazionali, ma non sono potuto andare perché non ero italiano. Quella partita è chiusa per sempre. Ora ho iniziato ad allenare bambini al Milan: tanti di loro non sono italiani, ma la squadra lo è. È la forza dello sport. Penso che la politica manchi di coraggio: Sinistra e Destra si muovono a fini elettorali, guardano ai sondaggi e alla pancia del Paese. “Un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alla prossima generazione” diceva De Gasperi. Se ci fossero più statisti e meno politici, staremmo tutti meglio».

Rifat è il rappresentante dei Giovani musulmani del Lazio e di Roma. È al terzo anno di Ingegneria energetica all’università La Sapienza e gestisce la lavanderia di famiglia, è perito meccanico e lavora in una carrozzeria. Ha 23 anni, è arrivato dal Bangladesh in Toscana quando ne aveva otto con un ricongiungimento familiare, dalle medie in poi si è trasferito a Roma. «Sono cresciuto in una comunità religiosa multiculturale con persone di Paesi diversi – dice Rifat – La diversità fa parte della mia identità. Ho frequentato la scuola italiana, studiato la storia e la cultura di questo Paese, esattamente come i miei coetanei italiani. Questo mi ha aperto un mondo, dandomi anche la possibilità di confrontare questa cultura con quella dei miei genitori. Conoscere due o più poli ti dà la possibilità di scegliere, di decidere in modo consapevole quello che preferisci, anche solo rispetto al cibo o a come ti vesti». Colpisce l’energia di Rifat. «Mi piace molto dare ripetizioni di materie scientifiche, ma non è un lavoro vero – racconta – E poi collaboro con diverse associazioni impegnate nel sociale. È nella moschea di Centocelle a Roma che è nato il mio coinvolgimento in questo campo. La lavanderia la gestisco solo da poco tempo. Fosse dipeso da me, avrei scelto un altro momento, più avanti, ma ho accettato la decisione della mia famiglia. Non ho la cittadinanza perché finché sono stato minorenne a mio padre è mancato il reddito continuativo con la soglia richiesta. Su questo tema, penso ci sia un vuoto legislativo. Io la cittadinanza la prenderò, anche con la legge attuale, che però mi fa perdere tempo e opportunità perché non è facile produrre il reddito richiesto per tre anni di fila. Ma il punto è che non ho gli stessi diritti di un mio coetaneo italiano: se voglio la cittadinanza non posso continuare a studiare e basta. I politici te la buttano lì: “Basta un po’ di pazienza”. Non è così semplice. Non è che uno aspetta un pezzo di carta per sentirsi cittadino in un Paese in cui è cresciuto e di cui capisce i meccanismi. Noi siamo una generazione di transizione, prima o poi questa fase verrà superata. Ma è tempo che le leggi cambino per adeguarsi ai bisogni».

Articoli correlati

SEGUICI SUI SOCIAL

GLI ULTIMI ARTICOLI

Gli ultimi articoli