In un mondo senza buoni e cattivi, il movimento pacifista si è perso. Mai negli ultimi settant’anni, da quando è stata firmata la Dichiarazione universale dei diritti umani, si erano raggiunte le efferatezze di questi anni, neanche nelle stragi etniche del Ruanda. Eppure la reazione emotiva ed etica rimane chiusa nel privato, non diventa movimento sociale che punta a fermare i potenti. Usate l’aggettivo che preferite ma è indiscutibile che oggi il movimento pacifista è assente, scomparso, silente, carsico… Insomma, è arrivato il momento di interrogarsi con onestà.
Certo di grandi mobilitazioni oggi non si parla più, non solo nel pacifismo. Sono cambiati tutti i riferimenti per il pacifismo “storico”. Probabilmente la mancanza di un unico nemico, un solo “uomo nero” a cui si possano addossare tutte le colpe (neanche Trump è riuscito a resuscitare le lotte contro gli “Usa gendarmi del mondo” di qualche decennio fa), rende più difficile la mobilitazione. Ma c’è anche la consapevolezza diffusa che non bastano le mobilitazioni di piazza e i cortei per affrontare situazioni così complicate. L’intreccio perverso di guerra, fame, povertà, disuguaglianze, vittime civili, migranti, competizione crescente per accaparrarsi petrolio e gas, desertificazione e disastri ambientali, aspirazioni delle potenze regionali in Medioriente è un coacervo micidiale che produce tragedie e stragi, rispetto a cui forse scatta il senso di impotenza, spingendoci a rintanarci nella paura egoistica.
Su tutto poi aleggia l’inconsistenza dell’Europa, che non si muove o quando si muove lo fa in ordine sparso, provocando disastri come in Libia. In tutto l’Occidente c’è una sola voce fuori dal coro: papa Francesco! La situazione è davvero complicata.
Eppure “l’uomo nero” c’è: è la guerra in sé, non ci sono i buoni e i cattivi, ma solo i potenti che si azzannano sulla pelle delle persone. In direzione “ostinata e contraria” ci sono mille rivoli: interventi locali, aiuti umanitari, azioni di cooperazione e solidarietà, testimonianze, appelli e dossier, in un puzzle che non si riesce a ricomporre. E ci sono tanti movimenti che parlano il linguaggio della pace, quelli contro i cambiamenti climatici o a sostegno dei migranti, c’è il fenomeno crescente del volontariato. C’è molto di nuovo sui territori, ma in una dimensione sparpagliata, che non fa condensa.
Ripartiamo allora da un fatto. Oggi ci sono quattro grandi emergenze da cui dipende il nostro futuro: l’aumento delle disuguaglianze (con dentro lavoro e diritti), la pace, il clima, le migrazioni. Forse la novità sta proprio qui, rompere gli steccati e tenere insieme queste emergenze per costruire un immaginario nuovo e positivo, per rovesciare il piatto di chi specula sulla paura, per dare speranza costruendo un nuovo movimento. Questo ruolo potrebbe giocarlo il mondo associativo? Forse sì, se riusciamo a costruire un discorso popolare, se non restiamo chiusi a parlarci fra “professionisti della pace”.