L’ora del dibattito

Dal mensile – Una volta approvato il Pnrr servirà un confronto con le comunità locali per prevenire conflitti sociali sulle opere da realizzare. Un manifesto indica la strada giusta

Per fare del Piano nazionale di ripresa e resilienza una guida capace di dettare modalità e ritmo della transizione ecologica italiana servirà scegliere i progetti giusti. Sostenibili sul piano ambientale ed energetico, funzionali per i territori in cui si vanno a impiantare opere, in grado di rivitalizzare l’occupazione oltre il breve periodo dell’apertura dei cantieri e, soprattutto, non calati dall’alto ma frutto di percorsi decisionali partecipati. Dal 1995 sul tema fa scuola il débat public francese, un’esperienza che rappresenta un punto di riferimento importante in Europa. Oltralpe con la legge Barnier è stata istituita la Commission nationale du débat public (Cndp), un’autorità amministrativa indipendente che ha il compito di sottoporre al confronto tra cittadini, organizzazioni e stakeholder i progetti di costruzione delle grandi opere. La procedura è consultiva, dunque non ha potere decisionale. Ma in Francia, negli ultimi venticinque anni, è servita parecchio per aggiustare il tiro quando possibile. E prevenire molti conflitti sociali.

Diffidenza politica

Nel frattempo anche in Italia qualcosa si muove. In questa direzione, nell’ambito del nuovo Codice degli appalti del 2016 e della legge sulla Valutazione di impatto ambientale (Via), è stata avviata la costruzione di un impianto normativo con il Dpcm 76/2018, che ha introdotto il Dibattito pubblico, e il decreto legislativo 152/2006 sull’Inchiesta pubblica. Il percorso legislativo è stato dunque tracciato, ma resta l’ostacolo di endemiche lungaggini burocratiche e, più in generale, di una certa “diffidenza” da parte della classe politica nei confronti dei processi partecipativi. Mentre ci si dimentica che a rallentare l’iter delle opere sono la scarsa qualità dei progetti presentati alle commissioni competenti e, ancora più a monte, la mancanza di analisi. A cominciare da quelle sulle alternative a minore impatto ambientale e sul rapporto costi benefici. Il risultato di questo approccio è sotto gli occhi di tutti. Nonostante sia stato approvato nella scorsa legislatura, l’iter di attuazione della procedura di dibattito pubblico è stato completato solo da pochi mesi e messo alla prova per la prima volta, tra la fine del 2020 e l’inizio di quest’anno, per la nuova diga foranea del porto di Genova. Ma a causa della pandemia, il decreto Semplificazioni ne ha posticipato la messa a regime al 2024. In parallelo, le soglie dimensionali previste per far scattare l’obbligo del confronto non sono state abbassate, tagliando fuori dalla consultazione anche i progetti di autostrade, centrali a gas, elettrodotti o gasdotti. E non è mai stata applicata l’inchiesta pubblica per i progetti sottoposti a Valutazione di impatto ambientale perché manca il regolamento attuativo.

Per scuotere il Paese in una fase così decisiva, con alle porte la valutazione del Pnrr italiano da parte della Commissione europea, lo scorso 16 aprile un gruppo di organizzazioni ha lanciato un Manifesto per il dibattito pubblico sulle opere della transizione ecologica. Tra i primi firmatari c’è Legambiente. «Non possiamo permetterci di impiegare troppo tempo per autorizzare impianti fondamentali come quelli eolici o a biometano – spiega il presidente dell’associazione ambientalista, Stefano Ciafani – Dobbiamo fare in modo che tutto avvenga nell’arco di pochi mesi o settimane. E per farlo bene serve un rafforzamento delle strutture preposte ai controlli pubblici, dunque l’Ispra e le Arpa. Presto si apriranno migliaia di cantieri in tutto il territorio nazionale – continua – ma se non facciamo questo, e se non mettiamo in campo un percorso di coinvolgimento dei territori in cui insistono le opere, rischiamo di non rispettare la scadenza del 2026 entro cui tutti i fondi del Next generation Eu dovranno essere spesi».

Toscana docet

Vanno in questa direzione le proposte contenute nel Manifesto: rivisitazione delle normative sul Dibattito pubblico e sull’Inchiesta pubblica; abbassamento delle soglie in modo da rendere obbligatorio il confronto per un maggior numero di progetti; introduzione dell’inchiesta pubblica in quelli sottoposti a procedura di valutazione ambientale nazionale o su scala regionale; organizzazione coordinata delle consultazioni, evitando di separare le procedure di dibattito e inchiesta ma basandole sul progetto di fattibilità per arrivare alla redazione di un piano definitivo; istituzione di una commissione nazionale indipendente sul modello francese, che con i suoi esperti si faccia da garante del percorso. Per rendersi conto che tradurre in azioni concrete questi punti non è un’impresa impossibile, basta guardare a quello che succede in Toscana. «Siamo la prima Regione in Italia ad aver approvato una legge sulla partecipazione, la 46/2013 – dice Francesca De Santis, garante regionale dell’informazione e della partecipazione – Io la definisco “legge madre” perché dai suoi principi sono poi scaturite altre leggi regionali, come la 65/2014 sul governo del territorio, che prevede l’obbligo della partecipazione nell’ambito di tutti i procedimenti di pianificazione territoriale e urbanistica». In Toscana, in realtà, non è stato inventato nulla di nuovo. «Il principio partecipativo che abbiamo applicato – spiega De Santis – è di derivazione comunitaria e rimanda all’articolo 6 della Convenzione di Aarhus (dalla città danese in cui è stata firmata nel 1998, ndr) sull’accesso alle informazioni, la partecipazione dei cittadini e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, la cui entrata in vigore risale al 2001».

Sul crinale appenninico del Mugello è entrata nel vivo la procedura di inchiesta pubblica per la costruzione dell’impianto eolico “Monte Giogo di Villore”. A seguirla, passo dopo passo, è la moderatrice Giovanna Pizzanelli, professoressa di diritto amministrativo del dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. «La procedura è iniziata nell’aprile del 2020, all’inizio dell’emergenza sanitaria – racconta – Sono state organizzate tre audizioni in cui siamo entrati nel merito di alcuni aspetti considerati cruciali da chi vive in questo territorio: dall’impatto dell’opera sul paesaggio e sulla fauna alle conseguenze dal punto di vista idrogeologico, fino alla questione delle compensazioni. L’organizzazione di incontri online a causa delle restrizioni anti-Covid ha dimostrato che esistono strumenti per allargare ulteriormente la partecipazione». Terminata l’inchiesta pubblica, la società che ha proposto l’opera, la Agsm Verona, ha iniziato a revisionare il progetto anche in base alle osservazioni emerse. L’iter proseguirà poi nella Conferenza dei servizi in Regione Toscana e, tra un anno, si saprà se verrà rilasciata l’autorizzazione.

Più tempo per far prima

È con processi strutturati come questo che si garantiscono trasparenza delle informazioni ai cittadini e, di conseguenza, qualità dei progetti. Prevenendo così l’insorgere di fenomeni classici di queste dinamiche, come la famigerata sindrome nimby dei cittadini (not in my backyard, non nel mio giardino), il “nimto” degli eletti (not in my terms of office, non nel mio mandato) e le fake news infarcite di tesi non scientifiche sugli impatti fatte circolare da gruppi di pressione contrari a determinate opere. «Se non mettiamo in campo una nuova stagione di partecipazione rischiamo di trasformare l’Italia in un Paese in “guerra civile permanente”, con centinaia di contestazioni nei territori – conclude il presidente di Legambiente – Gli strumenti del dibattito pubblico e dell’inchiesta pubblica vanno estesi a tutte le opere previste nel Pnrr». Forse si impiegherà più tempo nell’avviare un’opera. Ma, una volta partito, il cantiere produrrà qualcosa realmente nell’interesse della collettività.

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