Green new deal, una priorità per l’Italia

Schiera di pale eoliche

In un Paese come l’Italia che fatica ad affrancarsi da schemi di sviluppo economico ancorati al passato, il momento di un green new deal non può essere più rimandato. Per liberare le reali potenzialità dell’economia circolare e disegnare una nuova visione di società in grado di ridurre le marcate disuguaglianze sociali che tengono distanti territori e cittadini occorre spostare la fiscalità sulle fonti fossili, riformare le concessioni sui beni comuni e ambientali, incentivare chi investe sulle rinnovabili.

Il momento per farlo è adesso, ritagliando risorse adeguate nella legge di bilancio 2020, che dovrà essere approvata entro la fine dell’anno. Ne è convinta Legambiente, che in collaborazione con il Forum disuguaglianze e diversità, insieme ad altre organizzazioni, ha presentato lo scorso 14 ottobre alla Camera dei deputati un piano di interventi, che se attuato permetterebbe al governo di andare oltre il timido passo in avanti fatto con il recente decreto clima, innescando finalmente una transizione ecologica, energetica e sociale. Uno step necessario per far ripartire l’economia, migliorare le condizioni di vita delle fasce più vulnerabili della popolazione e fornire al Paese quegli anticorpi indispensabili per difendere i propri territori e fronteggiare i cambiamenti climatici.

Conversione in numeri

Tradurre tutto ciò in una manovra finanziaria realmente sostenibile, nel senso più ampio della parola, è possibile. A cominciare dall’utilizzo di quei fondi che lo Stato ha già in cassa, come gli oltre 19 miliardi di sussidi ambientalmente dannosi che riguardano settori strategici: dai trasporti all’industria, dall’agricoltura agli usi civili. E che dovranno essere destinati sia a investimenti in innovazione ambientale, sia alla riduzione della fiscalità sul lavoro, in particolare per chi guadagna di meno. Nel 2020 lo Stato potrebbe così recuperare oltre un miliardo di euro. Cifra che potrebbe lievitare fino a 2,5 miliardi entro il 2025 applicando i canoni in vigore negli altri Paesi europei. Mentre dal 2030 si potrebbero arrivare a mobilitare 50 miliardi all’anno attraverso un’attenta attivazione di fondi europei e nazionali. Sono traguardi raggiungibili, ma solo se si cambiano politiche e priorità. Ad esempio, rivedendo al rialzo i canoni per le cave, le acque minerali, le concessioni balneari e le attività estrattive (in primis quelle di petrolio), introducendo una carbon tax, sbloccando i cantieri che servono (metropolitane e tram, impianti eolici e fotovoltaici, riqualificazione energetica degli edifici e messa in sicurezza del territorio) e mettendo da parte quelli che invece non sono più funzionali allo sviluppo del Paese (strade, autostrade e centrali a gas).

La sfida dell’End of waste

Solo così si darebbe l’impulso che serve all’economia circolare. Un settore che, ad oggi, agli occhi di tanti sembra limitato al perimetro delle buone pratiche sparse in ordine sparso in giro per lo Stivale. E che invece rappresenta qualcosa di ben più strutturato e ramificato, come dimostrano le migliaia di nuove imprese che puntano su modelli produttivi più attenti all’ambiente e la crescita dell’occupazione nel turismo di qualità, nell’agricoltura biologica, nell’efficienza energetica, nel mondo del riciclo. È proprio in quest’ultimo comparto che, a inizio ottobre, si è mossa una leva che presto potrebbe dare il la a un effetto domino virtuoso. La maggioranza parlamentare ha infatti inserito nel decreto sulle crisi aziendali un emendamento alla norma che regola i cosiddetti “End of waste”, ovvero le autorizzazioni degli impianti di riciclo che permettono di trasformare i rifiuti in risorse. In attesa dell’emanazione di decreti nazionali, spetterà dunque alle Regioni rilasciare o rinnovare le autorizzazioni caso per caso alla “cessazione della qualifica di rifiuto” e far sì che prodotti e materiali possano essere processati e rimessi in commercio.

«Questo emendamento è finalmente una risposta quasi definitiva a tutti i problemi denunciati dal mondo dell’industria del riciclo dopo il caos innescato dall’approvazione del decreto Sblocca cantieri – commenta il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani – In quel decreto era stata trovata una soluzione totalmente sbagliata sull’End of waste dal precedente governo.

Una soluzione che non solo non sbloccava il riciclo futuro dei rifiuti, ma ne teneva bloccato il riciclo presente». Uno stallo emerso, in tutta la sua evidenza, con il caso dei centoventi impianti in provincia di Brescia a cui era stata ritirata l’autorizzazione a operare in base a quanto previsto dallo Sblocca cantieri e che sono potuti ripartire solo grazie all’intervento della Regione Lombardia. «Con il compromesso trovato dalla nuova maggioranza di governo si sana adesso la ferita causata al riciclo e all’economia circolare italiana – sottolinea Ciafani – D’ora in avanti le Regioni potranno tornare ad approvare le autorizzazioni End of waste in attesa dei decreti nazionali. Il ministero dell’Ambiente, attraverso il Registro nazionale delle autorizzazioni, potrà ordinare controlli a livello nazionale. Mentre l’Ispra e le Arpa avranno la possibilità di effettuare delle ispezioni. Insomma, abbiamo finalmente tirato via un tappo».

Superato lo scoglio dello Sblocca cantieri, c’è un pezzo importante del tessuto imprenditoriale del Paese che ora attende l’approvazione di nuovi decreti End of waste, come quelli per il recupero meccanico di plastiche miste, per i rifiuti da costruzione e demolizione, per gli oli alimentari esausti o i residui da acciaieria. Resta poi da sciogliere il nodo del biometano. «Poiché sono previsti degli incentivi per il biometano per la produzione di energia, le Regioni Lombardia e Veneto ritengono che non sia necessario attendere l’emanazione di un decreto nazionale – sostiene il vicepresidente di Kyoto Club, Francesco Ferrante – È un’interpretazione corretta, considerato anche il fatto che il biometano è a tutti gli effetti metano avendo la sua stessa molecola, ovvero la CH4. Il problema è che manca un’interpretazione ufficiale in tal senso da parte del ministero dell’Ambiente. Si tratta di un passaggio fondamentale per sbloccare le autorizzazioni per gli impianti e mettere nelle condizioni di lavorare gli operatori del settore».

Resta aperta anche la questione degli impianti di compostaggio della frazione organica, su cui le decisioni non prese a livello politico hanno innescato una vera e propria emergenza nazionale. Come conferma Massimo Centemero, direttore generale del Consorzio italiano compostatori (Cic). «Fra gli obiettivi fissati da Bruxelles con il pacchetto sull’economia circolare ci sono anche un incentivo della raccolta differenziata del biorifiuto e il raggiungimento del 65% di riciclo del rifiuto urbano – spiega – Ciò comporterà la generazione, entro il 2023 e su tutto il territorio nazionale, di oltre due milioni di tonnellate all’anno di rifiuti organici, oltre a quelli già prodotti, e la necessità di individuare sistemi di trattamento che possano garantirne l’effettivo riciclo. Motivo per cui serve un piano di investimenti infrastrutturale che metta in sicurezza l’intero Paese, creando le condizioni per un’autosufficienza impiantistica di compostaggio e di gestione anaerobica».

Nuove priorità

Rendere più snelli ed efficaci i processi decisionali e investire in impianti “fatti bene” sono dunque due tra le principali priorità per il Paese. Ma non solo. «Bisogna inoltre affrontare il problema del mancato consenso territoriale – afferma Stefano Ciafani – Anche gli impianti di riciclo continuano a essere molto osteggiati in Italia, e ciò è causato specialmente dalla mancanza di fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni». Da ultimo, occorre sviluppare un mercato dei prodotti riciclati. «Un punto su cui c’è una grande carenza da parte dello Stato – conclude il presidente di Legambiente – La gran parte delle stazioni appaltanti pubbliche quando pubblica i bandi di gara non rispetta l’obbligo sull’inserimento dei Cam (Criteri minimi ambientali, nda) introdotto con il Gpp (Green pubblic procurement, nda). Se fosse rispettato quest’obbligo, i prodotti da riciclo avrebbero una corsia preferenziale nei bandi pubblici».

Premiare chi investe in soluzioni sostenibili, tassare chi insiste sulle fonti fossili e su processi produttivi inquinanti, sanzionare chi non rispetta le leggi. È così che si creerebbero le condizioni di base per lo sviluppo di un green new deal. Rispondendo con i fatti a quella richiesta di giustizia sociale che arriva da tante parti del Paese rimaste indietro.

Articolo pubblicato su La Nuova Ecologia – novembre 2019

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