Grecia, in viaggio nei campi profughi

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Kalochori

Il primo giorno dal gabbiotto di sorveglianza del campo non ci dice niente nessuno. Il secondo giorno, il poliziotto seduto chiede i documenti e entriamo, “giusto il tempo di un caffè e di portare un pacchetto di pasticcini agli amici”. Sappiamo già dov’è la tenda, non serve accompagnarci dentro all’hangar. Kalochori è uno dei circa 50 campi profughi allestiti dal governo greco dopo lo sgombero, a primavera scorsa, di Idomeni, l’accampamento al confine tra Grecia e Macedonia dove 12.000 profughi sono rimasti fermi per circa quattro mesi dopo la chiusura del valico di frontiera.

A una ventina di chilometri da Salonicco, a ridosso degli snodi delle grandi arterie, Kalochori è nascosto nella fotografia più scontata della periferia di un porto del meridione: strade strette e capannoni industriali vecchi e nuovi, cani da guardia dietro i cancelli, randagi fuori. Se non lo conosci non lo trovi. Dalla città ci arriva l’autobus 40. È nella struttura di un ex supermercato. Un campo piccolo che a novembre ospitava circa 150 persone, siriane e curde, per lo più famiglie.

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Kalochori

Dall’altro lato della strada, un camioncino nero vende verdure. I cancelli sono pieni di panni stesi. Chiusi i quattro container dell’Unhcr. Sul piazzale bambini e donne. Alcune lavano i piatti. Da sotto il lavatoio, una pozzanghera si espande verso l’ingresso dell’hangar. L’interno è occupato interamente dalle tende. Nel corridoio stretto tra le pareti del prefabbricato e le tende verde chiaro, ancora bambini. Su quella della famiglia che siamo venuti a trovare, hanno disegnato un pupazzo con il pennarello blu. L’ingresso è socchiuso, come quasi tutti gli altri. Davanti ci sono le scarpe. Scarpe e ciabatte davanti a ogni tenda.

A Kalochori, come negli altri campi, si vive così. In attesa. Sospesi in una provvisoria quotidianità. Dove chi ha più da fare se la cava meglio, dallo sconforto, dalla depressione e dalla perdita di autorevolezza nei confronti dei figli. Le donne in linea di massima. Nelle tende si dorme, si mangia, si parla, si guarda il cellulare, si fuma, si beve il caffè, su due materassi e quattro coperte grigie a coprire un telo isolante. Nella tenda dei nostri amici, si disegna anche. Un po’ per passare il tempo, un po’ per raccontare, certo non per dimenticare.

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Un disegno di Sherazade, bambino curdo siriana di Aleppo

Per Sherazade, bambina curdo siriana di Aleppo che da mesi disegna la guerra e la sua storia di profuga, e la sua famiglia che siamo venuti a trovare, questo è il secondo inverno in Grecia. Con il tempo, i disegni sono cambiati. La speranza ha ceduto il posto all’amarezza, la colomba della pace è sparita, sostituita dalla denuncia del rifiuto che l’Europa riserva a chi scappa dall’Isis e dai soldati di Assad. Sono sparite le didascalie in arabo, ma compare qualche parola, un po’ sbilenca, con i nostri caratteri a stampatello.

Nella scuola del campo gestita da volontari, i bambini più grandi stanno imparando l’inglese, i genitori no. A Kalochori i volontari insegnano anche matematica. A lezione vanno solo i bambini che lo vogliono. Per quelli che, per un motivo o per un altro, non se la sentono, è un anno senza scuola. Per molti, non il primo.

Al centro, con la maglia rossa, Sherazade

Il nucleo familiare di Sherazade è composto da sei persone: padre, madre e quattro figli, due femmine e due maschi di età compresa tra i dodici e i cinque anni. L’estate scorsa hanno visto riconosciuto per un anno lo status provvisorio di rifugiati, fino a luglio 2017. Ora, come altri 50.000 profughi provenienti dalla Siria e fermi in Grecia, aspettano la seconda chiamata dell’Unhcr: quella in cui ti chiedono in quale paese d’Europa vuoi andare. Il formulario è a risposta multipla, si possono mettere otto preferenze, ma sono soltanto indicative. E le quote disponibili nei paesi di riallocazione spesso non coincidono con le richieste. Ora, a chi ha già fatto richiesta, propongono la Romania. “Puoi rifiutare il primo paese che ti dicono, ma poi devi per forza accettare il secondo” ci ha fatto capire il padre di Shera, che quando passa dal curdo all’arabo fa fatica a mettere a fuoco subito che non parliamo neanche quello.

Fuma continuamente. È provato. Il suo cellulare è pieno di video sulla distruzione di Aleppo, la sua città, e foto di resistenza curda. È venuto via per portare in salvo quella famiglia seduta in cerchio intorno alle tazze del caffè turco che è stato un po’ lungo da preparare sul fornelletto elettrico (per l’ospite maschio adulto, la tazza più grande). Sono lì, vivi, e se hanno problemi possono andare dal dottore. Ricevono acqua e cibo tutti i giorni, ma dei pasti del catering, sempre uguali, non ne possono più.

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Kalochori

“Vengono sprecati circa 120mila euro al mese dal governo greco, perché due terzi del cibo consegnato viene buttato” ci racconterà poi Maurizio Cara, coordinatore dell’ong Firdaus a Vasilika, un altro campo vicino a Salonicco. Per le famiglie con problemi di salute, il governo ha messo a disposizione case in città. A loro non è toccata nonostante l’asma della bambina e le cefalee della madre, che mi mostra il suo libretto medico. Nel campo si dorme male. La notte scorsa c’è stata una rissa. “La polizia non è intervenuta”. L’ordine per le forze dell’ordine a guardia dei campi è, infatti, di non intervenire, per non inasprire i conflitti, non generarne di nuovi. Un protocollo che suona come un’ennesima ingiustizia a chi è stufo di stare lì.

Idomeni
Idomeni

Quando la famiglia di Sherazade è fuggita dalla guerra, l’idea era di andare in Germania, dove vive una zia. Continuano a sperarlo, ma si chiedono se sarà mai possibile dopo il dietrofront di “mama Merkel” sulla capacità del suo paese di accogliere tutti i migranti che lo volessero, cui ha fatto seguito la chiusura dei confini di alcuni Stati a est, a cominciare dalla Macedonia, dove loro, come tanti altri, non sono riusciti a passare.

Idomeni
Idomeni

Nel gigantesco accampamento a cielo aperto che si era creato intorno allo snodo ferroviario di Idomeni, definito dal ministro dell’Interno greco Panagiotis Kouroublis la Dachau dei nostri giorni, hanno trascorso tre mesi, fino allo smantellamento della tendopoli da parte delle autorità e lo smistamento dei migranti nei campi allestiti dal governo. Della permanenza a Idomeni di migliaia di persone ora rimane qualche scarpa e qualche straccio nel terreno, qualche scritta sui muri delle stalle di una fattoria in disuso. La terra è nera e arata. Se ti inoltri nel campo, verso il filo spinato del confine, ti ferma la polizia e ti porta al comando per controllarti a lungo i documenti. A pochi chilometri, lungo la strada tra Salonicco e Idomeni, anche l’area di servizio Eko, quasi vuota, è tornata alla normalità. Solo una scritta in arabo su un bidone della spazzatura tradisce, per chi lo sa, che c’è stato Eko camp, con 1.800 migranti circa a vivere lungo la statale, in attesa che sui binari di Idomeni, dove le merci non si sono mai fermate, si riaprisse un varco per le persone.

Idomeni
Idomeni

Vasilika è, se così si può dire, un campo pilota. Molto più grande di Kalochori, ospita 820 persone, di cui 350 bambini e 250 donne, in 290 tende ripartite in sette capannoni industriali. Dal primo al terzo gli arabi. Dal quinto al settimo i curdi. Il quarto misto.

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Vasilika

Ci sono altri due hangar, uno era destinato a luogo di studio e d’incontro, con tavoli, biblioteca e computer, ma è stato distrutto. Una tenda circondata da un recinto di legno, poco distante dall’ingresso del campo, ospita un “baby hammam”, per lavare i bambini. Ne possono entrare due per volta, insieme alle madri. La policy dei volontari è di evitare il contatto fisico con i piccoli, che una volta lasciato il campo dovranno saper convivere con gli adulti dei paesi di riallocazione senza fidarsi di tutti o dimostrarsi troppo affettuosi. Insegnare, ai bambini e agli adulti, le regole di un mondo nuovo nel ghetto di un campo profughi non il compito più facile per gli operatori.

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Vasilika

È quasi sera, fuori dai capannoni poche persone, soprattutto uomini. “Hanno tutte le età – dice Maurizio Cara – dai 18 agli 80 anni, c’è chi ha viaggiato con la famiglia e chi da solo”. È in corso una partita di pallavolo. “I profughi di questo campo – spiega Cara – dopo la seconda chiamata dell’Unhcr sono spostati ad Atene, nelle case, in attesa di essere riallocati nel paese indicato, e qui arrivano nuovi ospiti, dai campi più piccoli dove le condizioni sono decisamente peggiori”.

Senza clamore mediatico, piano piano, piccole quote di profughi stanno lasciando la Grecia. Ma la riallocazione procede a rilento. Sono partite solo 5.800 persone dei 66.000 richiedenti asilo di cui il piano europeo prevede il trasferimento in altri paesi dell’Unione entro il 2017. E le richieste già registrate, per ora, sono 11.900.

Idomeni
Idomeni

All’interno dei capannoni, un mondo. Nelle tende aperte, si vedono brande e tappeti colorati, qualche lucina. C’è spazio per tavoli esterni. A uno di questi, siede il capo della comunità curda; ha i capelli bianchi ma il viso giovanile, gioca a backgammon con un ragazzo. C’è un bancone dove si fanno e si vendono falafel e kebab e un paio di bancarelle con prodotti alimentari e casalinghi, mercatini autogestiti con prodotti acquistati in città. Poter decidere che cosa mangiare e cucinarselo è il desiderio di tutti. Qui, date le dimensioni del campo, è più facile; per motivi di sicurezza, sarebbe vietato. Fuori arriva il camion del catering a portare la cena. Sotto una tettoia grande, volontari scaricano riso al curry, in confezioni di plastica trasparente sigillata. Più in là, una donna rimesta verdura in una pignatta grande, su un fuoco acceso per terra.

Negli ospedali greci, i migranti hanno la precedenza. Anche per evitare qualsiasi tipo di contagio e permanenze troppo vistose. Anche la Grecia aspetta. Stretta nella morsa della sua crisi economica, cerca di gestire al meglio la situazione profughi. Sa di non avere altre carte da giocare nella brutta partita della loro riallocazione in Europa. Senza la volontà politica dei leader dell’Unione la situazione rischia di non migliorare.

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