L’amianto continua a uccidere

Il 28 aprile è la giornata mondiale per le vittime dell’amianto. A 30 anni dalla legge che l’ha messo al bando, ne è stato rimosso soltanto il 25%. Di questo passo ne avremo ancora per 75 anni. Ai quali aggiungere i 40 di latenza del mesotelioma

Dal mensile di Aprile. L’Italia è un Paese in cui si continua a morire di amianto. La conferma è arrivata, il 14 febbraio scorso, dal settimo Rapporto del registro nazionale dei mesoteliomi (Renam). Il dossier, realizzato dall’Inail incrociando i risultati dell’attività di sorveglianza epidemiologica svolta dai centri operativi regionali, ha preso in esame oltre 31.572 casi di mesotelioma maligno diagnosticati tra il 1993 e il 2018. Dall’analisi è emerso che la malattia, correlata nell’80% dei casi all’esposizione alle fibre di amianto disperse nell’aria, sta registrando la sua maggiore incidenza proprio in questi anni. Nonostante i primi segnali di riduzione del ritmo di crescita della neoplasia, vale a dire la crescita incontrollata di cellule anomale nei soggetti interessati, la media annua dei casi diagnosticati resta infatti alta, fra i 1.500 e i 1.800. Lombardia, Piemonte, Liguria ed Emilia-Romagna sono le regioni più colpite, concentrando da sole oltre il 56% dei casi.

Il 28 aprile è la giornata mondiale delle vittime dell’amianto

Tracce latenti

Degli oltre 30.000 casi indagati, il rapporto ha ricostruito le modalità di esposizione per 24.864. Di questi, circa il 70% è collegato direttamente alle condizioni negli ambienti di lavoro. Il settore più coinvolto è l’edilizia (16,2% del totale), seguono metalmeccanica (8,8%) e cantieri navali (7,4%). Situazioni di esposizione sono però state riscontrate anche in settori non tradizionalmente considerati a rischio, dove però permangono latenti tracce di amianto: non solo impianti di raffinazione e petrolchimici, ma anche zuccherifici. Ci sono poi casi documentati di esposizione ad amianto tra i lavoratori dello spettacolo, in agricoltura per la presenza di manufatti in cemento-amianto, fra i meccanici di automobili per via di parti in amianto negli impianti frenanti di vecchia generazione. Come ha segnalato recentemente l’Osservatorio nazionale amianto, la situazione è critica anche nelle scuole, con 121 casi di mesotelioma riscontrati nel personale docente e non docente (dati Renam), 2.292 istituti interessati (dati 2021) e 356.900 studenti potenzialmente esposti. A questi vanno aggiunte altre 50.000 persone che lavorano negli edifici scolastici. L’amianto è dunque annidato in molti più luoghi di quanto crediamo. «Questa evidenza − spiega Alessandro Marinaccio, responsabile del Renam − è correlata al grande uso di amianto in molti e spesso inattesi ambiti industriali che si è avuto in Italia fino al bando del 1992, con oltre 3,5 milioni di tonnellate di amianto grezzo, fra produzione nazionale e importazioni». E i residui di quella corsa sfrenata all’amianto tornano in superficie ancora oggi, soprattutto in occasione di interventi di ristrutturazione e demolizione su vecchi edifici.

L’amianto è un minerale che, se respirato, provoca delle patologie cancerogene alle vie respiratorie. Ma se portato ad altissime temperature con dei processi chimici collassa, vetrifica e diventa completamente inerte 

Trent’anni dal bando

Proprio nel 2022 cadono i trent’anni dal varo, il 27 marzo del 1992, della legge 257 che ha introdotto il divieto di estrazione, importazione, commercializzazione e produzione di amianto e prodotti che contengono il materiale fibroso. La legge ha introdotto un programma di dismissione da portare a termine entro il 28 aprile del 1994, e predisposto parallelamente nell’articolo 10 dei Piani regionali amianto per la valutazione dei rischi, la gestione dei manufatti coinvolti e l’individuazione delle tipologie di interventi per le bonifiche. Negli anni questo impianto normativo è stato integrato, in particolare con l’indicazione di nuove regole per lo smaltimento e per definire una mappatura sempre più capillare e precisa dei siti contaminati. Su quest’ultimo aspetto è intervenuta, nella fattispecie, la legge 93 del 2001, che ha affidato al ministero dell’Ambiente il compito di coordinare la realizzazione del Piano nazionale amianto, stabilendo per le Regioni e le Province autonome l’obbligo di trasmettere al dicastero i propri dati entro il 30 giugno di ogni anno. Questo iter orientato alla condivisione dei dati è però andato incontro a vari ostacoli. Con il risultato che oggi esistono numeri relativamente aggiornati sulla presenza di amianto nel Paese, ma non si ha la certezza che siano reali. Dall’ultimo censimento della Banca dati amianto dell’Inail, aggiornato al 31 dicembre 2020, risultano 108.000 siti interessati, con 7.905 siti bonificati e 4.300 siti parzialmente bonificati. I Sin (siti di interesse nazionale) sensibili a questo rischio sono Broni- Fibronit (Pv), Priolo-Eternit Siciliana (Sr), Casale Monferrato-Eternit, Balangero-Cava Monte S. Vittore (To), Napoli Bagnoli-Eternit, Tito-ex Li-quichimica (Po), Bari-Fibronit, Biancavilla-Cave Monte Calvario (Ct), Emarese-Cave di Pietra (Ao), Officina grande riparazione Etr di Bologna.

Ancora più complicata la stima dei quantitativi di materiali contenenti amianto. Gli ultimi dati del Cnr risalgono a parecchi anni fa e parlano di circa 32 milioni di tonnellate, derivanti in gran parte dalla presenza di 2,5 miliardi di m2 di coperture, come lastre ondulate o piane in cemento-amianto.

Vignetta di GianLo Ingrami. Amianto
Vignetta di GianLo Ingrami. Amianto

Una corsa senza senso

Pietro Comba è la figura giusta per riavvolgere il nastro di questi trent’anni. In passato direttore del reparto di epidemiologia ambientale e sociale dell’Istituto superiore di sanità, era in prima linea nella delicata fase che ha condotto all’adozione della legge 257. «All’epoca facemmo la cosa giusta al momento giusto, anche se forse con qualche anno di ritardo − racconta − Se avessimo fatto prima, avremmo evitato quell’impennata dell’uso di amianto che si è registrata a ridosso dell’approvazione della legge. A differenza di altri Paesi europei che stavano già rallentando prima di attuare il bando, l’Italia ha corso fino al penultimo giorno utile. Abbiamo usato tutto il materiale che c’era a disposizione e abbiamo continuato a importarne fino alla fine». Una corsa senza senso, che di fatto ha spinto fino al 2025 il potenziale picco di casi di mesotelioma. «La curva epidemica è stata sfalsata rispetto ad altri Paesi che, a differenza nostra, hanno anticipato le loro politiche industriali», precisa in proposito Comba. Ma le criticità irrisolte sono anche altre, a cominciare dalla mappatura e dal censimento «che sono ancora incompleti, disomogenei e non permettono di quantificare la reale presenza di amianto nel nostro Paese», denuncia Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente. «Dopo trent’anni non è chiaro anche chi si debba occupare di amianto in Italia, essendo le competenze suddivise tra uffici che si occupano di sanità, rifiuti, ambiente o bonifiche e che non permettono una visione d’insieme del problema». Tra i tre livelli in gioco, deputati a livello centrale regionale e locale da una parte alla protezione ambientale e, dall’altra, alla tutela della salute, una cooperazione organica di fatto non c’è mai stata. L’altra zavorra è rappresentata dai ritardi nell’adozione dell’impiantistica necessaria, a livello regionale, per smaltire o inertizzare i materiali contenenti amianto. «Se andiamo a vedere le quantità di amianto rimosse da poli industriali e da edifici − riprende Comba − osserviamo che stiamo procedendo molto lentamente. Indicativamente in questi trent’anni abbiamo rimosso solo circa il 25% del materiale. Se mantenessimo questo passo ne avremmo ancora per altri 75 anni. Calcolando che la latenza delle malattie dovute all’amianto è dell’ordine dei 40 anni, a questi 75 anni di ulteriori lavori di rimozione dovremmo aggiungere una quarantina di anni di osservazione. Siamo di fronte a un problema grave, e ci sono delle responsabilità precise».

Tecnologia in soccorso

A fronte di una catena di comando che non ha saputo fare quadrato tra le istituzioni competenti a vario livello, l’Italia del dopo amianto è comunque ripartita. Lo ha fatto facendo leva su iniziative animate soprattutto dal basso, e sperimentando. Sono stati vagliati materiali alternativi, testate modifiche ai cicli produttivi, introdotti elementi di innovazione soprattutto nell’edilizia, è stata fatta formazione e sono state avviate campagne di sensibilizzazione specie nelle regioni con popolazioni più a rischio di incorrere in malattie. Negli ultimi anni una delle iniziative più interessanti è stata Filiera Amianto, frutto di una convenzione tra ministero dell’Ambiente e Cnr. Obiettivo del progetto è studiare l’intera filiera del materiale, dal suo smaltimento al riutilizzo dei residui inerti, in modo da rendere l’intero processo un ciclo chiuso, senza emissioni pericolose in atmosfera e senza la produzione di rifiuti di trattamento. «Questo progetto ci ha consentito di avere un quadro delle tecnologie di inertizzazione dell’amianto − commenta Francesco Petracchini, direttore dell’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Cnr − L’amianto è un minerale che, se respirato, provoca delle patologie alle vie respiratorie cancerogene. Ma se portato ad altissime temperature con dei processi chimici il minerale collassa, vetrifica e diventa completamente inerte con nessun impatto sulla salute». Da questo materiale inertizzato possono così nascere nuove filiere di raccolta e trattamento della materia seconda amianto, da riutilizzare ad esempio per prodotti ceramici o per la realizzazione dei fondi stradali. Ed evitare così l’immissione del rifiuto in discarica, dove è destinato a rimanere per un tempo indefinito con il rischio di perdite sempre dietro l’angolo. Sul piano gestionale, qualcosa si è mosso a marzo. Per offrire un servizio concreto ad amministrazioni, imprese e cittadini, Uni (Ente italiano di normazione) e Sportello amianto nazionale hanno aperto un tavolo tecnico per sviluppare una nuova prassi per una metodologia che determini l’indice di stato di degrado dei residui di natura antropica presenti nei patrimoni immobiliari, stabilisca i requisiti professionali minimi richiesti alla figura del responsabile rischio amianto e illustri la formazione operativa necessaria per svolgere programmi di monitoraggio e manutenzione.

Il grande escluso dal Pnrr

Sul rischio amianto è tornato a richiamare l’attenzione nei mesi scorsi anche il Parlamento europeo raccomandando alla Commissione, attraverso una risoluzione del 20 ottobre 2021, di avviare iniziative mirate alla protezione dei lavoratori esposti alla fibra killer. Eppure, in Italia la questione non sembra prioritaria per il governo, che nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) all’argomento ha dedicato un solo accenno in riferimento agli investimenti nel parco agrisolare. La mission fissata dal Piano consiste nell’incentivare “l’installazione di pannelli a energia solare su di una superficie complessiva senza consumo di suolo pari a 4,3 milioni di m2, con una potenza installata di circa 0,43GW”, rimuovendo l’eternit dai tetti. È inoltre previsto un investimento di 500 milioni di euro da destinare alla bonifica dei siti orfani con l’obiettivo di riqualificarli. Misure a dir poco residuali al cospetto dell’emergenza che abbiamo di fronte. «È inaccettabile che l’amianto sia il grande escluso del Pnrr − puntualizza Andrea Minutolo di Legambiente − Con i fondi che stanno arrivando nessuno si è minimamente preoccupato di inserire tra le tante e giuste tematiche da affrontare anche l’argomento amianto. Nonostante mieta ancora oggi migliaia di vittime ogni anno». Queste criticità dimostrano che all’Italia non sono bastati trent’anni per scrollarsi di dosso le scorie di questo materiale. Anche se, nel frattempo, alcune cose buone sono state fatte e non vanno lasciate in sospeso. Per il bene della nostra salute, per la sicurezza nei luoghi di lavoro e per la salvaguardia dei territori più esposti. «Come ha spesso ripetuto l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro − sottolinea Marinaccio − la sola via per l’eliminazione delle malattie amianto-correlate è il bando internazionale dell’amianto». Per il quale, nonostante i tanti limiti emersi in questi anni, l’esperienza italiana ha comunque dimostrato che un sistema coordinato di analisi delle circostanze di esposizione può «consentire di identificare fonti di contaminazione che sarebbe difficile fare emergere con gli strumenti tradizionali dei censimenti. Anche per questa ragione – aggiunge il responsabile del Renam – è necessario che, a partire dal rafforzamento dei servizi territoriali di prevenzione, sia sviluppata un’azione di consolidamento delle realtà regionali attive e un rilancio delle attività negli ambiti territoriali in difficoltà, anche a causa dell’emergenza pandemica». Insomma, è necessario che si riprenda in mano il Piano nazionale amianto facendo comunicare fra loro i soggetti in campo per mettere in rete i dati a disposizione. «C’è però bisogno che dall’alto qualcuno dica: mettiamoci intorno a un tavolo, dividiamoci il lavoro e le risorse esistenti e lavoriamo in sinergia e non in competizione», conclude Pietro Comba. Altrimenti in Italia di amianto si continuerà a morire. E senza potere prevedere per quanti anni ancora.

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