Agroecologia, anche in Italia è il momento di ripensare la terra

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La crisi climatica colpirà sempre di più i nostri campi agricoli. Fra trent’anni le ondate di calore, la siccità, le alluvioni e gli eventi meteorologici estremi faranno diminuire la produzione di tutte le coltivazioni non irrigue del 50%. E queste stesse coltivazioni, alla fine del secolo, saranno ridotte dell’80%. Una prospettiva catastrofica, che interessa in parte l’agricoltura centro e nord europea, ma investe in pieno l’Italia. L’allarme è stato lanciato a settembre dall’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) con il rapporto “Adattamento ai cambiamenti climatici nel settore agricolo in Europa”. Nel dossier l’Eea chiede da una parte maggiore attenzione alla salvaguardia della produzione primaria, dall’altra conferma che l’agricoltura intensiva e industriale è fra le cause di questo disastro, visto che proprio dai campi sparsi nel Vecchio Continente proviene il 10% delle emissioni di gas serra.

Scenari sostenibili

In uno scenario del genere non c’è più tempo per limitarsi a riflettere sull’opportunità di passare a un’agricoltura alternativa a quella convenzionale, più equilibrata, sostenibile e meno aggressiva nei confronti della terra e delle sue risorse. Perché la conversione all’agroecologia rappresenta ormai una strada obbligata da percorrere, in cui muoversi con la forza di progetti e investimenti strutturati sul lungo termine. «La sostenibilità ecologica deve rappresentare sempre più l’asse portante e strategico di un nuovo modello agricolo capace di intrecciare innovazione e ricerca per rispondere in modo adeguato sia alla sfida epocale sui cambiamenti climatici che alle forti richieste dei consumatori di prodotti più sani – spiega Angelo Gentili, responsabile agricoltura di Legambiente – Quello agricolo è un settore strategico, attraverso il quale è davvero possibile invertire la rotta dell’intero sistema produttivo. In quest’ottica, occorre diminuire fortemente l’utilizzo delle molecole pericolose di sintesi che sono presenti nelle acque superficiali e sotterranee, nel terreno e nei prodotti destinati al mercarto, e ridurre il consumo di acqua ed energia per salvaguardare gli ecosistemi e diminuire le emissioni climalteranti». Fra gli elementi chiave di questo nuovo paradigma ci sono la tutela del paesaggio, la difesa dal dissesto idrogeologico, la coesione sociale, la circolarità dell’economia, a cui va aggiunta una lotta senza alcuna esitazione al caporalato e allo sfruttamento dei lavoratori agricoli. Tasselli che vanno collegati fra loro per sostituire un’idea di agricoltura ormai superata, dominata per troppo tempo dal principio della monocultura e dall’utilizzo della chimica nei campi.

Consumatori consapevoli

Meno produzioni su larga scala e più qualità al dettaglio, in linea con le nuove richieste dei consumatori. È il trend emerso nel corso dell’ultima edizione di Sana, il Salone internazionale del biologico e del naturale tenutosi a Bologna dal 6 al 9 settembre, verso cui si muovono – seppur ancora in ordine sparso – sempre più imprese italiane. Dal 2010 al 2018, sottolinea in proposito il Sinab (Sistema d’informazione nazionale sull’agricoltura biologica), gli ettari di superficie coltivata a bio in Italia sono cresciuti di oltre il 75%. L’incidenza della superficie biologica sulla Sau (superficie agricola utilizzata) è stata lo scorso anno del 15,5%, dato che posiziona l’Italia largamente al di sopra della media Ue, che nel 2017 si attestava al 7%. Il nostro Paese si conferma al primo posto anche per numero di operatori nel settore. Fra il 2010 e il 2018 l’incremento è stato di oltre il 65%, con 79mila aziende agricole bio. Tra queste c’è Apo Conerpo, gruppo bolognese leader in Europa nella produzione e commercializzazione di ortofrutta fresca e trasformata. «Dopo tre anni di prove insieme alla Regione Emilia Romagna – racconta il presidente Davide Vernocchi – abbiamo dimostrato che una sensibile riduzione delle emissioni di gas a effetto serra è realizzabile mettendo in atto buone pratiche agricole che comportano una riduzione dell’utilizzo delle macchine e dell’acqua di irrigazione. A breve partirà un marchio, il “Made green in Italy”, che valorizzerà le performance ambientali con l’avvallo del ministero dell’Ambiente, consentendo così alle aziende virtuose di comunicare i propri requisiti di sostenibilità».

Stop ai pesticidi

Per vaste aree dell’Italia, come nella Pianura padana dove gli squilibri climatici hanno svuotato di sostanza organica i terreni favorendo l’invasione di nuovi parassiti, la conversione al bio si sta rivelando una vera e propria salvezza. Basti pensare che, come sottolineato dalla piattaforma Cambia la terra, i suoli coltivati a bio registrano un più alto tasso d’assorbimento della CO2 (3,5% contro l’1% dell’agricoltura convenzionale), trattengono più acqua utile in caso di prolungata carenza di piogge e attraverso siepi e zone naturali facilitano il mantenimento della biodiversità e la creazione di microclimi. In parallelo, l’altro “fronte caldo” di questa sfida è la lotta all’uso della chimica di sintesi. Un versante sul quale un apporto decisivo deve arrivare dalla politica, tanto a livello nazionale quanto sul piano locale. Un’esperienza interessante in tal senso è quella del biodistretto di Carmignano, comune della provincia di Prato dov’è stata approvata un’ordinanza che prevede il divieto assoluto di utilizzare glifosato nell’area di Montalbano. «Da qui è nato il progetto “Carmignano 2020” – spiega il sindaco Edoardo Prestanti – un protocollo d’intesa mirato ad attivare una collaborazione fra il Comune e le associazioni locali per sostenere, anche tramite l’istituzione di uno Sportello verde, la conversione ecologica sia delle aziende, sia dei singoli agricoltori che degli hobbisti».

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