La nostra società dipende sempre più dal mare, dal quale provengono risorse di ogni genere, come cibo, ma anche additivi nutrizionali impiegati nella produzione alimentare, o materiali come idrocarburi, minerali e terre rare, acqua destinata a processi di desalinizzazione, e “risorse genetiche” identificate nel dna di organismi marini e utili nei processi industriali. Dal mare arriva anche spazio per trasporti, condotte di gas e cavi, parchi eolici, esercitazioni militari, turismo e aree protette; il mare delimita i confini tra Paesi ma è anche terra di nessuno che molti reclamano, oggi che il cambiamento climatico sta espandendo il confine blu, fondendo ghiacci perenni e invadendo terre emerse.
La nuova corsa all’oro blu, definita “accelerazione blu” e spinta dall’idea che gli oceani diano sostegno inesauribile alla crescita economica, sta facendo decollare il livello di competizione in mare per accaparrarsi risorse apparentemente abbondanti. Una competizione sovranazionale, ma anche tra ambiti diversi all’interno della stessa nazione: ad esempio, in Norvegia, traffico marittimo, pesca industriale, acquacoltura, turismo da crociera ed estrazione petrolifera insistono tutte sulla medesima porzione di mare. Come favorire la coesistenza tra attività economiche, garantendo una ripartizione delle risorse sostenibile e orientata all’equità? Serve uno sforzo senza precedenti di governance internazionale e locale allo stesso tempo, informata dalla scienza e che parta dalla consapevolezza del legame indissolubile fra umanità e mare, dove questo non è solo cruciale per il nostro sviluppo ma è anche sottoposto a un continuo cambiamento di stato, sempre più accelerato, a mano a mano che si posiziona al centro dell’economia.