Gaia, ultima chiamata

Gaia Ultima Chiamata

Gaia ci manda segnali d’allarme, da decenni. La maggior parte delle volte, a intercettare questi segnali è stata solo la scienza, che per sua costituzione è lenta, sebbene rigorosa, nel ritrasmettere la conoscenza acquisita. Alcune volte siamo stati in molti a cogliere questi segnali, rilanciati dalla cronaca alla velocità che compete alla “società della comunicazione”. Negli ultimi anni, però, stiamo assistendo a un progressivo allineamento temporale di cronaca e scienza, nei confronti dei segnali di allarme da parte della Terra. Prendiamo ad esempio ciò che è avvenuto a un tiro di slitta dal Circolo polare artico nell’agosto scorso. Le temperature superano i 30 °C, come accade in un’area molto ampia, dalle isole britanniche alla Scandinavia. Qualcuno cerca refrigerio nelle fresche acque del fiume Kemijoki. Alcune renne si avvicinano ai bagnanti e i genitori invitano i figli a non temere gli animali. Le renne entrano in acqua, bevono, si rinfrescano. La cronaca coglie rapidamente questo singolare evento e lo immortala nella ormai famosa foto di Antti Heikkilä, che diventa icona di un fenomeno di riscaldamento dell’atmosfera che va al di là dell’eccezionalità locale, come quella neve d’agosto caduta a bassa quota in qualche contrada dell’Italia meridionale, ancora oggi raccontata dai nostri nonni – ma vai a capire se si trattava di neve per davvero, oppure di una grandinata eccezionale. L’immagine di bagnanti al Polo insieme alle renne, a differenza della neve d’agosto, è invece ben lontana dall’essere mito. È cronaca, in linea con quanto afferma la scienza. Attraverso queste lenti, da luglio a oggi, abbiamo visto: disservizi energetici per l’abuso di condizionatori in una Londra soffocata dall’afa; preoccupazioni per il possibile distacco di un iceberg in Groenlandia, che avrebbe potuto provocare uno tsunami lungo le coste della stessa regione; fusione del ghiacciaio in vetta al monte più alto di Svezia, che ha perso il proprio primato proprio a causa di quell’evento; bovini morti di sete in Svizzera; foreste bruciate in Scandinavia, che hanno impiegato pompieri da tutta Europa, Italia compresa; devastanti incendi in Grecia; per finire, inondazioni distruttive nella Spagna centrale, a seguito di un agosto rovente.

 

Crisi senza confini

Non è andata certo meglio in altre regioni dell’emisfero boreale. Lungo la costa occidentale degli Stati uniti, temperature di quasi 40 °C hanno dato origine a estesi incendi nel Montana glacier national park, con conseguenze economiche e sociali, come la chiusura di attrazioni turistiche ed evacuazioni di centri abitati. Al caldo eccezionale nei due continenti “occidentali” ha fatto da contraltare quanto avvenuto nel lontano Oriente: in Giappone, le ondate di calore estive hanno provocato la morte di centosedici persone e sono state seguite da drammatiche alluvioni dovute a piogge torrenziali improvvise e concentrate in un breve lasso temporale, che la stampa giapponese ha stimato abbiano ucciso duecentoventi persone. Ancora, uragani e tempeste devastanti durante il mese di settembre, dagli Stati Uniti alle Filippine. Eventi sempre più frequenti, in tendenza decennale. Crisi climatiche in aumento costante. È del 2003 la prima ondata di calore estiva registrata in Europa, che fece centinaia di morti – producendo danni evidenti, esplicitamente quantificabili nel brevissimo termine e attestati dal riscontro “emotivo” cui fa eco la cronaca. Danni all’uomo, come quelli evidenziati dalla recente analisi condotta dal dipartimento di Epidemiologia del Sistema sanitario della Regione Lazio e presentata da Legambiente, che ha mostrato come in dieci anni, tra il 2005 e il 2016, ben 24mila morti sono state ricondotte a malori dovuti alle ondate di calore. Un terzo di questi decessi si è verificato nella sola città di Roma. Se da una parte la cronaca registra i danni provocati dai fenomeni meteorologici estremi, le scienze del clima ci aiutano e ricercare le loro cause “più lontane”. La Nooa (National oceanic and atmospheric administration), un’agenzia scientifica governativa statunitense, ha dichiarato gli ultimi tre anni come i più caldi di sempre. Nel giugno scorso, la temperatura media globale, includendo terre emerse e oceani, è stata la quinta più alta per tale mese dal 1880, cioè da quando le temperature globali vengono registrate. Le anomalie positive di temperatura (la differenza tra la temperatura dell’anno specifico e la media della temperatura sul periodo di osservazione) si sono impennate a partire dal 1980, con una media di circa +1 °C, negli ultimi quattro anni. Più caldo in atmosfera vuol dire più energia disponibile per eventi climatici estremi, dalle ondate di calore alle inondazioni distruttive. 

 

Avvertimento all’umanità

Le preoccupazioni sullo stato di Gaia vengono ormai da scienziati di tutto il mondo. Alcuni di loro, ovvero un numero record di oltre 15mila unità (incluso chi scrive), capeggiati dal prof. William Ripple della Oregon state university, le hanno riportate in un articolo di “avvertimento all’umanità”, pubblicato sulla rivista scientifica BioScience alla fine del 2017. Questi scienziati hanno provato a dettare delle linee guida, soprattutto politiche, per curare la febbre di Gaia, che è fatta soprattutto di cambiamenti del clima e deterioramento degli ecosistemi, a causa dell’eccessivo sviluppo urbano, industriale e demografico umano. «Anche se alcune persone possono essere tentate di rigettare le evidenze dei cambiamenti globali e pensare che solleviamo solo allarmismo – ha affermato il prof. Ripple in una recente intervista al Daily mail – gli scienziati sono principalmente impegnati nell’analisi di dati acquisiti nel corso degli ultimi decenni e nel ricercare le conseguenze possibili sul lungo termine. Più che un falso allarme nei confronti del preoccupante stato del nostro pianeta, gli scienziati firmatari dell’articolo di avvertimento all’umanità non hanno fatto altro che riconoscere gli ovvi segnali del fatto che abbiamo intrapreso un percorso di sviluppo insostenibile». Ripple conclude dicendo che lui e i suoi 15mila co-autori sperano che il loro articolo possa innescare un’estesa discussione pubblica sullo stato di Gaia, su quello che sta avvenendo all’ambiente, sulle cause dei mutamenti che si stanno verificando a livello globale e sulle cure da mettere in atto.

La scienza è unanime nel ritenere che cambiamenti climatici, deforestazione, perdita di accesso all’acqua potabile e aumento smisurato della popolazione umana siano reali minacce alla nostra sopravvivenza su questo pianeta. Perché gli ultimi quarant’anni non sono stati solo gli anni più caldi da quando teniamo un registro delle temperature, ma anche quelli in cui gli ecosistemi di Gaia hanno subito i peggiori danni a causa delle attività dell’uomo. Tra i segnali più evidenti dell’inquinamento di origine umana vi è sicuramente l’aumento delle concentrazioni di gas in grado di alterare il clima, come l’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4) e l’ossido di diazoto (N2O), che hanno raggiunto e superato le 400 parti per milione (ppm) in atmosfera. Secondo la serie temporale del Noaa in corso a Mauna Loa (Hawaii), la CO2 è passata da 315 a 408 ppm dal 1960 al luglio del 2018. Un tale incremento, regolare, “monotòno”, non può essere spiegato da fenomeni come le eruzioni vulcaniche, che danno vita ad accumuli di CO2 più rapidi e meno regolari. La CO2 è il principale imputato per l’aumento delle temperature a livello globale, perché è il più abbondante tra i principali gas serra del nostro pianeta. In maniera molto efficiente, questo gas assorbe la radiazione infrarossa prodotta dalla superficie della Terra e la riemette di nuovo verso le parti basse dell’atmosfera, riscaldandola. Non solo: la CO2 ha anche un ruolo fondamentale nel tenere unite le diverse “sfere” in cui può essere diviso il nostro pianeta, come atmosfera, litosfera (la superficie solida della Terra), idrosfera (le acque) e biosfera (gli esseri viventi).

 

Antroposfera in tilt

Aldilà delle più recenti preoccupazioni per lo stato di Gaia, l’allarme degli scienziati viene da lontano. In un dispaccio scientifico neozelandese del 1912 si stimava che l’umanità, bruciando carbon fossile, emetteva globalmente 7 miliardi di tonnellate di CO2 per anno. Già allora si riteneva che ciò potesse dar vita a una “coltre più efficiente” di CO2 per il pianeta, con “effetti considerevoli” sulla temperatura terrestre nel giro di pochi secoli. Gaia vedeva così crescere, al proprio interno e in maniera conclamata, una nuova sfera, in grado di influenzare la circolazione planetaria del carbonio: la antroposfera (dal greco anthropos, uomo). Oggi l’antroposfera emette circa 30 miliardi di tonnellate di CO2 per anno, una quantità che non può essere prelevata dalle altre sfere (come la biosfera, con le piante, o gli oceani, con la dissoluzione del gas nelle loro acque). Del totale di 3-4.000 miliardi di tonnellate di CO2 presenti in atmosfera, poco meno di un terzo ha origine recente (l’ultimo secolo) e deriva dalla combustione del carbonio di origine fossile, come il carbone, il petrolio e il gas naturale, ovvero da tutti quei processi tecnologico-industriali finalizzati alla produzione di energia per muovere la nostra civiltà. Gaia chiede aiuto, l’aria è cambiata e bisogna porre rimedio, perché l’aumento di CO2 in atmosfera non vuol dire solo più caldo d’estate. Mentre i ricercatori del Cnr di base alle Svalbard dicono che “ogni giorno nell’Artico fonde qualcosa come 3.000 colossei” (Ansa, agosto 2018), altri scienziati affermano che ciò, paradossalmente, può portare il grande gelo, durante l’inverno, alle nostre latitudini. «La fusione del ghiaccio marino accelera il riscaldamento dell’Artico poiché l’acqua allo stato liquido assorbe più calore», ha spiegato Jennifer Francis al network Inside climate news nel febbraio 2018. «Ciò porta alla fusione di altro ghiaccio e, in questo circolo vizioso, la temperatura dell’Artico aumenta il doppio più velocemente rispetto alla media globale. Riducendosi le differenze di temperatura tra il polo e le regioni temperate, si riduce anche la velocità della corrente a getto polare, che corre in senso latitudinale, spinta dalle differenze di temperatura e pressione tra il polo e le regioni temperate». Si liberano così enormi masse d’aria polare verso le aree temperate, con fenomeni meteorologici estremi (per le latitudini alle quali essi si verificano), come nevicate copiose in aree dal clima mediterraneo. Atmosfera e idrosfera sono legate l’una all’altra dai processi climatici, guidati dagli scambi di calore tra aria e oceani. Allo stesso tempo, quanto avviene in queste due sfere può influenzare fortemente lo stato della biosfera. Gli esseri viventi, nella loro multiforme diversità biologica, sono indispensabili per la funzionalità degli ecosistemi del nostro Pianeta, che per esempio ci danno ossigeno e cibo, ovverossia due risorse primarie. Negli oceani la combinazione di maggiore temperatura e acidità (dovuta alla dissoluzione in acqua di una maggiore quantità di CO2) può ridurre la quantità di plancton vegetale, il cibo dei pesci più piccoli, che è diminuito del 40% dal 1950. Il plancton è uno dei principali “prelevatori” di carbonio inorganico dall’acqua e, quindi, di CO2 dall’atmosfera. Dunque, gli effetti negativi del riscaldamento di aria e dell’acidificazione dell’acqua sulla vita marina possono provocare un circolo vizioso, per il quale il detrimento della biosfera peggiora ulteriormente le condizioni di Gaia. Qualcosa di simile può avvenire anche sulle terre emerse. Il riscaldamento globale e ciò che ne consegue a livello climatico sta determinando un clima più secco nelle foreste boreali, che oltre a favorire estesi incendi, e quindi la liberazione di altra CO2, favorisce l’attività dei batteri al livello del suolo, molti dei quali, nella loro attività di degradazione della materia organica morta, liberano metano, un gas serra 35 volte più efficace della CO2. Inoltre, se è vero che più CO2 in atmosfera può voler dire un maggiore impulso alla fotosintesi (infatti, il mondo oggi appare più verde di alcuni decenni fa, grazie all’espansione delle foreste boreali), alcune ricerche ritengono che tale “rinverdimento” sia solo transitorio, perché un aumento di soli 2 °C della temperatura globale nei prossimi decenni – il migliore scenario tra quelli previsti, stando all’attuale livello di sviluppo industriale – porterebbe alla riduzione dell’acqua necessaria a far vivere le foreste, che producono la metà dell’ossigeno che respiriamo.

Leggi il box: “Carbonio di scambio”

Tempo scaduto

Gli scienziati ritengono che presto sarà troppo tardi per porre rimedio ai danni che Gaia sta subendo a causa dello sviluppo industriale, urbano e demografico delle società umane. Già nel 1968, una libera associazione di scienziati, economisti, attivisti, rappresentanti degli apparati statali di tutto il mondo si riunirono a Roma per fondare l’omonimo Club, la cui missione era quella di individuare i principali problemi che l’umanità si sarebbe trovata ad affrontare, analizzandoli in un contesto globale e ricercando possibili scenari di azione politico-economica a contrasto di tali problemi. Uno dei primi passi del Club di Roma fu commissionare agli scienziati del Massachusetts institute of technology (Mit), il più importante “politecnico” a livello mondiale, uno studio che predicesse le conseguenze, sull’ecosistema terrestre e sulla sopravvivenza dell’uomo, della crescita della popolazione umana e delle sue attività economiche e industriali. A margine di uno studio che simulava al computer il “funzionamento” del sistema terrestre nelle sue componenti principali, antroposfera compresa, fu pubblicato nel 1972 il rapporto “I limiti dello sviluppo”. Già allora si affermava che il tasso di crescita dell’antroposfera non era sostenibile e i cosiddetti limiti dello sviluppo umano sarebbero stati raggiunti in un momento imprecisato, da lì al 2072, portando a un declino improvviso e incontrollabile della popolazione umana. Tra le soluzioni da mettere in atto tempestivamente, l’abbattimento delle emissioni di CO2, per contenere il riscaldamento della Terra e i cambiamenti climatici e ambientali conseguenti. Uno degli autori de “I limiti dello sviluppo”, Jørgen Randers, aggiornando le previsioni del rapporto nel suo libro 2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni (2012), affermava come assai improbabile la capacità da parte dell’uomo di contenere entro i 2 °C l’aumento globale di temperatura, da qui al 2052 appunto. L’Ipcc nel suo rapporto sul “Riscaldamento Globale di 1.5°C” conferma che ci si dovrà abituare a convivere con eventi estremi ma dice anche che siamo ancora in tempo per contenere il surriscaldamento del pianeta entro questa soglia critica. Il superamento di tale soglia può innescare diversi meccanismi peggiorativi dello stato di Gaia, con danni dai quali non si può più tornare indietro, come la liberazione del permafrost dai ghiacci, l’emissione massiva di metano in atmosfera, l’ulteriore aumento della temperatura terrestre, la fusione completa delle calotte polari, l’aumento smisurato del livello del mare, lo spostamento delle zone climatiche, migrazioni di dimensioni “bibliche” e così via. Tutti fenomeni che avranno ripercussioni drammatiche sulla nostra civiltà. Possiamo ancora salvarci? Sì, ma soltanto se prendiamo coscienza (scientifica) dei segnali che Gaia ci manda. E agiamo. Qui, all’interno di Gaia, e ora.

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